Il dolore sublime

squarciato dove una luna velata appare nell’azzurro, in una notte bagnata di pioggia ma che già avverte l’aria fresca della rinascita. Paesaggio di intensa poesia e di simbolismo pregnante, il Notturno, che nasce dalla Tempesta del Giorgione e trova risposta nelle Notti del Tintoretto a San Rocco, si pocontrario: Figlio, costruito con un colore morbidissimo e caldo, che tocca il suo vertice nella luminosità accecante del sudario candido e nel volto di giovinezza incorrotta, che par che dorma e stia per risvegliarsi. Simbolo eucaristico evidente e atto di fede nella resurrezione, questo Corpo è vivo come la Natura che lo circonda, origine anzi di un cielo e di una terra nuova. Di qui il porsi della pala come punto di avvio di un modo diverso di presentare il fatto sacro, più come una pausa lunghissima di un dramma già compiuto che come azione dinamica di un evento: momento perciò ascetico e mistico, contemplativo, da cui prenderà le mosse tanta arte devozionale dei decenni successivi, e da cui Sebastiano non si allontanerà mai. Dieci anni dopo la tavola di Viterbo infatti, nel 1524, riproporrà nella Flagellazione di San Pietro in Montorio a Roma, la medesima rappresentazione plastica e dolente, ancor più interiorizzata – manca il paesaggio – e bloccata nelle figure contrapposte, fisicamente e psicologicamente, del Cristo paziente e dei carnefici avidi di morte. Sarà un abbandono e una desolazione fissata in una dimensione extratemporale, certo più astratta rispetto alla tavola viterbese. Nella quale il lavoro a quattro mani – ormai pare certo che Michelangelo fornì il cartone per il Cristo (simile all’Adamo della Sistina) e i disegni per la Vergine, in evidente competizione con Raffaello – attuò un’autentica rivoluzione contenutistica, impregnando la plasticità tosco-romana del cromatismo veneziano. È il colore lagunare, con i tremolii le nebbie le luci variabili e il suo tono vitale, che dà respiro alla composizione, ne rende corale ed universale il sentimento. L’aveva ben capito l’intelligenza recettiva di un Raffaello che nello stesso 1514 risponde con un suo Notturno nella Liberazione di san Pietro nelle Stanze vaticane: una visione di luce dai vari accenti – dallo splendore al crepuscolo – colta nello scorrere sereno della Storia. Le manca il pathos di Sebastiano-Michelangelo, il vento consolatore che si sente nel notturno viterbese, l’aria romantica di una poesia dove la notte, con i suoi dolori i suoi misteri, diventa da questo momento un luogo dello spirito umano. ne come una presenza avvolgente la Madre e il Figlio. E se la Vergine, costruita con una torsione contrapposta è un atto di fede al Cielo (il Padre?), il Cristo, dal corpo brunito privo di qualsiasi traccia di martirio, è come percosso da un alito di vita. Nessun pensiero di morte in questa tavola del dolore e della compassione, nessuna solitudine disperata. Tutto infatti appare concentrato nel Corpo del ,

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