Il diamante nel trauma

Da una sventura si può trarre un bene, recita il detto. Possibile? Lo racconta il film “Riabbracciare Parigi” sui superstiti della strage del Bataclàn.
Alice Winocour al Festival di Cannes (Photo by Vianney Le Caer/Invision/AP) Associated Press/LaPresse Only Italy and Spain

Sono passati sette anni da quell’evento crudo. La regista parigina Alice Winocour ci ha pensato molto e ha girato un film che non vuol tanto narrare la strage ma raccontare come sta chi ne è uscito vivo, oggi. Per questo motivo il lavoro supera l’evento francese per diventare una indagine su chi sopravvive tuttora alle vicende della guerra. Allora, fu guerra e fin dall’inizio il film mostra l’allegria dei giovani nel locale, di colpo l’irruzione degli assassini, gli spari, i morti, la fuga.

Poi alcuni dei sopravvissuti – otto – rivedono Parigi, oggi. La regista li segue, li racconta con scene brevi, incisive. Mia (Virginie Efira) si incontra con il compagno, ma faticano a comprendersi. Lei cerca il cuoco che in quella notte di follia omicida le è stato accanto e gira per tutta Parigi a trovarlo, se è vivo. Camille (Anne -Lise Heimburger) fa i conti con una rabbia che non la lascia, Felicia (Nastya Gobuleva Carax) è disperata, perché ha perso i genitori con cui aveva litigato. «Non posso lasciare nessuno senza prima essermi riconciliata con lui, perché poi non si sa», dice struggendosi in lacrime. Thomas (Benoit Magimel) è un medico, ferito nel corpo e nell’animo che sta cercando di riprendersi, Nour (Sofia Lesaffre) non parla della tragedia in cui non c’era, perché conosce il cuoco che lavorava nel locale ma in nero.

Persone stranite, senza dove, che vogliono e non vogliono o non riescono a ricordare: si trovano ogni settimana nel bistrot dove tutto è avvenuto, in un gruppo guidato da Sara (Maya Sansa) per cercare di ricordare e superare il trauma.

Sono giorni di ricerca ansiosa degli altri sopravvissuti, fra diffidenze, voglia di tacere per non soffrire troppo, e tanta solitudine, anche da parte di chi non c’era, come la moglie di Thomas che dirà a Mia: «Io non capirò mai il suo dolore, non lo potrò mai aiutare», segno di una resa ad un trauma che ha colpito il marito dal quale lei interiormente si è già allontanata.

Mia invece non demorde. Gira per la città alla ricerca del cuoco che le ha in qualche modo salvato la vita: si sono abbracciati in quel momento, pur non conoscendosi, perché poteva essere la fine. Ma lui, l’uomo di colore, le diceva che non sarebbe morta qui, nel locale, tra gli spari. Mia lo troverà. Non nasce una storia d’amore come invece accadrà con Thomas, riprendendosi così la vita. Nasce invece un abbraccio di riconoscenza: «Grazie perché quella sera mi hai tenuto la mano».

È il diamante, ossia la speranza, che si può trovare anche in un evento terribile come quello del Bataclàn. Anche se non tutti lo troveranno perché Felicia continua, forse, ad aver bisogno di molto tempo per perdonarsi.

Scarno, rapido, con momenti dove lo schermo è buio o grigio – i pensieri, le emozioni, i dubbi dei personaggi -, recitato benissimo, il film è da non perdere. Attualissimo, nei nostri tempi di guerra. Non sono solo storie, ma la Storia degli uomini e delle donne di sempre che trovano la forza di ricominciare a vivere dopo gli orrori.

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