Il cielo non è dei mollaccioni

La profondità  inesauribile dell'esistenza, penetrata da Flannery O'Connor.
Il cielo non è dei mollaccioni

Quando viene edito, o riedito come in questo caso, un libro di valore, tanto più dal titolo evangelico Il cielo è dei violenti (Einaudi), è bene segnalarlo al lettore, tanto più in tempi di letterarie vacche magre.

 

Flannery O’Connor, scrittrice cattolica del profondo Sud (Georgia) degli Stati Uniti, di grande talento naturale, stentò a farsi comprendere, e la stima per la sua non copiosa opera (interrotta da un male incurabile alle ossa, il “lupus”) è andata crescendo col tempo.

Al centro del suo mondo rappresentativo sta, ma dissimulata e affiorante nei modi tipicamente south, “gotici”, del grottesco e della violenza sanguinaria, la Grazia: personaggi e situazioni le ruotano intorno, anzi ne sono trafitti senza poterla, pur volendo, evitare.

La O’Connor è consapevole di scrivere “tomisticamente”, cioè nella perfetta ortodossia cattolica, in un’epoca distratta e ostile, e senza che le sue ascendenze letterarie, molte e intrecciate (da James a Faulkner, che però evitava di leggere per non sentirsi schiacciata al confronto con la sua “sintassi”), bastino a giustificarla; ma ha fermissima anche la persuasione che la concretezza della realtà è data dall’unione della sua visibilità e del suo mistero, anzi, dal suo mistero colto da un occhio narrativo abituato a scorgere il limite, il male, la grazia, nel loro libero e tremendo gioco di rapporti.

La narrativa è dunque una cosa molto seria, pur essendo «la più modesta e la più umana delle arti», perché il suo ambito è «l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo». È «un’arte incarnatoria» che indaga «quei particolari di vita concreti che danno realtà al mistero della nostra posizione sulla terra», e deve farlo tanto più in un’epoca ben diversa da altre che «sentivano meno, vedevano di più, anche se con l’occhio cieco, profetico, non sentimentale dell’accettazione, vale a dire della fede».

 

La definizione di “scrittrice teologica” che The Times di Londra le attribuì è ben calibrata per un’autrice capace di dire (e di rappresentare) che la Chiesa è «l’unica cosa che renderà sopportabile il mondo terribile verso il quale ci stiamo avviando» (detto prima del 1964, anno della sua morte).

La sua tecnica narrativa, singolare e da autodidatta, da Wise Blood (1952, La saggezza nel sangue) a The violent Bear it Away (1955, Il cielo è dei violenti), ai bellissimi racconti, consiste, come la scrittrice ha rivelato nelle interviste, nelle lettere e nella preziosa raccolta di saggi Mystery and Manners (1979), nello «starsene a fissare senza andare subito al dunque. Più a lungo guardate un oggetto e più mondo ci vedrete dentro; ed è bene ricordare che lo scrittore di narrativa serio parla sempre del mondo intero, per limitato che sia il suo scenario». Questo è il senso dell’acutissimo richiamo: «La realtà è qualcosa alla quale dobbiamo essere ricondotti a caro prezzo».

Con tutto ciò, Flannery O’Connor è una scrittrice profondamente “comica” (anche in un senso dantesco di vicinanza alla prosa della vita), che ritrae «l’esperienza della limitatezza, o se preferite, della povertà. (…) Proprio come agli occhi di Dio siamo tutti bambini, agli occhi del romanziere siamo tutti poveri, e il povero vero e proprio è per lui soltanto il simbolo della condizione di tutti gli uomini». E ciò spiega, nel rispetto «assoluto della verità», pur tra violenze e grottesche cecità umane, la «mancanza di amarezza» nei racconti dell’autrice, come ella stessa ha notato, perché «se si crede nella divinità di Cristo si deve aver caro il mondo nello stesso momento in cui si è in lotta per sopportarlo».

Come scrisse, infatti, Marisa Caramella nell’introduzione del 1994 al libro di cui parliamo, per Flannery O’Connor «ogni tentativo di razionalizzare l’esistenza negando il divino che la pervade, equivale a un peccato assai più grave che non il bestemmiarlo, il negarlo furiosamente».

 

In un’intervista la O’Connor affermò: «Credo che uno scrittore serio descriva l’azione solo per svelare un mistero»: dove mistero significa, ovviamente, non il povero enigma di un libro “giallo” o “noir”, ma la profondità inesauribile dell’esistenza; che la O’Connor non pretende di sondare interamente, ma di penetrare quel tanto che serva a darcene il sapore unico, l’inconfondibile peculiarità. Il che è come dire: il marchio specifico della creazione e quello altrettanto specifico della redenzione tra le quali i personaggi sono chiamati ad agire, a scegliere, se possibile a capire, e in ogni caso a spendersi nel bene o nel male, nel loro intreccio e nella loro decantazione, compiendo il proprio e universale destino.

«Se c’è una cosa tremenda a scrivere quando si è cristiani è che per te la realtà suprema è l’Incarnazione, la realtà presente è l’Incarnazione» di cui a pochi importa. E oggi, nell’Europa largamente scristianizzata, a quanti importa? E quanti credono nell’esistenza di quel personaggio con cui tutti i personaggi di Flannery O’Connor hanno a che fare, il diavolo?

«È facile – risponde lei vittoriosamente anche come scrittrice – acquisire una coscienza adeguata del diavolo: basta resistergli». E perciò: «La letteratura, al pari delle virtù, non prospera in una atmosfera dove non si riconosce il diavolo come esistente in sé stesso e come necessità drammatica dello scrittore».

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