Il caso Apple e l’Europa dei popoli

L'Antitrust dell’Unione europea mette sotto accusa l’accordo fiscale tra l’Irlanda e il colosso informatico. Secondo la commissaria alla concorrenza, Margrethe Vestager, l’Apple ha pagato percentuali infime sui profitti realizzati nell’Ue (lo 0,05 per il 2013). Un forte segnale sull’importanza di una politica comune contro il potere eccessivo delle multinazionali
Caso Apple e l’Europa dei popoli foto AP

L’Europa c’è. Finalmente! È arrivata una decisione a vantaggio dei cittadini, che solo la potenza dell’Unione si può permettere. Apple deve versare 13 miliardi di euro all’erario irlandese per tasse non pagate. La pena è stata comminata da una donna, Margrethe Vestager, danese di 48 anni, capo dell’antitrust della Commissione europea.

 

Una decisione importantissima per quantità e qualità. Per quantità perché 13 miliardi di tasse non versate non erano mai state imputate a nessuno. La commissaria ha appurato che l’azienda di Cupertino ha pagato l’1 per cento di imposte sui profitti nel 2003 per arrivare recentemente allo 0,05 per cento. Altre aziende, invece, pagano il 12,5 per cento sui profitti. Il trattamento di favore è stato reso possibile da un accordo "legale" tra l’Irlanda e la Apple, ma la commissione l’ha rubricata come indebito aiuto di Stato, che ha creato un vantaggio fiscale a danno dei cittadini irlandesi e della concorrenza di mercato europea.

 

Ma è la qualità della decisione che fa fare un salto agognato all’Europa, rispondendo a un problema concreto di tutela dei diritti dei cittadini. Il problema concreto è nato con la globalizzazione, che ha trasformato il capitale in un flusso che viaggia nel mondo: ormai apolide. Mentre le istituzioni democratiche hanno un radicamento territoriale e nazionale, perdono la loro efficacia nel proteggere i cittadini. Da questo cambiamento sociale gli Stati ne sono usciti indeboliti, svuotati di potere di fronte ai colossi multinazionali del capitalismo. Sono loro a imporre le proprie condizioni e i propri standard agli Stati-nazione, sganciando il capitalismo dalla democrazia, cioè dalla cittadinanza.

 

Il meccanismo è abbastanza complicato, ma è stato chiarito dal rapporto di indagine del Senato americano del 2013: “Offshore Profit shifting and the Us tax code”. Secondo la ricostruzione, Apple con un fatturato di 74 miliardi e redditi per 30 non avrebbe presentato alcuna dichiarazione dei redditi, né avrebbe pagato imposte a nessun governo nazionale, men che meno agli Usa. Il capitale non ha interesse a posare il capo in un luogo specifico. La Apple, infatti, ha dichiarato alla commissione di «non aver determinato quale sia il luogo in cui è ubicata la direzione centrale e il controllo della società». In questo modo sfrutta un "baco" presente nello Stato moderno, che ha un sistema fiscale basato sul principio di residenza. Per le multinazionali, quindi, diventa un giochino sottrarsi a qualunque fisco, facendo crescere la diseguaglianza.

 

La soluzione consisterebbe nel condividere le regole tra i vari Stati per evitare la concorrenza fiscale tra le nazioni, ma sarebbe poco praticabile. La novità sta nel realismo e abbandonare l’idea, ormai arcaica, di tassare i profitti legati al territorio. Il fisco andrebbe, invece, legato ai salari o alle vendite di una azienda in un luogo. In sostanza la democrazia per vivere deve tassare gli attivi finanziari e non chi li detiene. Questo principio è già applicato ai patrimoni immobiliari e andrebbe esteso ai profitti.

 

È evidente che le risposte a queste forme inedite del capitalismo possono essere date solo a livello europeo e mondiale, perché le forze in campo sono impari, spesso paradossali, a volte grottesche. Come è grottesca la reazione del governo irlandese che ha annunciato ricorso alle decisione dell’antitrust: 13 miliardi è la spesa annuale del sistema sanitario irlandese. Che cosa spinge il governo a rifiutarli? L’Irlanda è un Paese di poco meno di 5 milioni di abitanti. Gli occupati in Apple sono però il 10 per cento della forza lavoro totale. Volendo vedere solo ciò che di buono ci può essere nel ragionamento di quei governanti, senza sospetti e retropensieri, c’è da dire che temono che Apple possa andare via, così come ha già minacciato di fare il suo Ceo Tim Cook. Tuttavia, ogni cittadino europeo dovrebbe ricordare ai governanti irlandesi che nel 2009 hanno dichiarato default, con il conseguente intervento del fondo salva Stati, di cui i contribuenti europei ne sono i finanziatori. Ora non è possibile che gli stessi cittadini devono sopportare anche una concorrenza fiscale sleale, dopo essersi svenati.

 

Il paradosso, invece, è rappresentato dall’intervento del Tesoro americano, che per difendere la Apple ha ammonito l’Europa dal far pagare quelle tasse, perché (udite udite) diversamente «le società americane non investiranno più in Europa». In pratica un governo straniero incoraggia investimenti esteri negandoli al proprio Paese: un inedito nella storia politica. In realtà il paradosso è solo apparente, perché se, da un lato, dice quanto pesi la lobby Apple sulla White House, dall’altro, se l’azienda californiana pagasse in Irlanda le sue tasse, il governo americano non avrebbe più alcuna speranza di recuperare la quota di fiscalità che gli spetta.

 

Le prime 500 multinazionali rappresentano un terzo del Pil mondiale. Ognuna ha una forza economica e di mobilitazione popolare tale da soggiogare le democrazie nazionali. Le forze in campo sono impari e solo un’Europa unita potrà affrontarli per proteggere i diritti dei cittadini, così come è accaduto con la decisione della commissaria Vestager. L’integrazione del mondo è un destino, ma con quali assetti ci arriveremo non è ancora determinato.

 

Magari per riaffermare un’idea giusta di unità dell’Europa nella più grande famiglia umana e per difendere i diritti dei cittadini e la democrazia bisognerebbe fare un time out collettivo. Alle ore 12 di Roma del 19 settembre 2016 (san Gennaro ci aiuti!), spegniamo un minuto tutti i prodotti Apple. Magari insieme a tutti gli altri. Le multinazionali origliano…

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