Il cantico del vino

Cadeva la pioggia, segnavano i soli / il ritmo dell’uomo e delle stagioni… . I fedeli del cantautore di Pàvana, Francesco Guccini, conoscono bene questa strofa tratta da uno dei suoi brani più suggestivi. Già, una volta c’era un ritmo. Che batteva, attraverso il terreno, attraverso l’aria, all’unisono col ritmo del cuore della gente. Un ritmo marcato dall’andare del sole e della luna nella volta celeste, segnato dall’audacia del calore, dal corroborante scrosciare della pioggia, dalla mansuetudine dell’ombra e dai rintocchi delle campane. Non è comunque bene favoleggiare su un passato idilliaco, che forse tale non è mai stato. Che probabilmente è soltanto abbellito dalla poetica distanza del tempo che – come una foto scattata al tramonto – intenerisce i contrasti, un po’ sfuma e ingentilisce anche ciò che troppo bello non è. Allora come oggi, c’erano cose buone e cose cattive, c’era gente saggia e generosa, c’erano i furbi, gli avari, i disgraziati e i santi, i rozzi e i violenti e le anime sensibili. Sotto tutt’altro ritmo però; ora s’è fatto più sincopato, più variato, più nervoso, più accattivante. Il ritmo antico è ormai cancellato anche dai nostri calendari.Ma sbuca ancora fuori in quello ebraico, che lega i grandi avvenimenti biblici alle feste stagionali del raccolto, della semina, del ringraziamento per i frutti dell’anno. E che contiene pure, alla fine dell’inverno, la simpatica festa di Tu B’Shevat, il compleanno degli alberi, per celebrare il risveglio della natura dopo la sonnolenza dei mesi freddi. Cose da noi ormai dimenticate… Ma perché non lasciarsi trasportare dall’illusoria leggerezza del ricordo, almeno per qualche istante? Perché non farsi cullare dalla tenerezza del ritmo che non c’è più? Una scusa la offre un rito antico, molto antico, però ancora ben radicato fra di noi. La vendemmia. I ricordi s’accendono dei colori violacei, dei gialli dorati, del profumo quasi voluttuoso dei grappoli che penzolano dai tralci, come gioielli pregiati che ondeggiano raffinati e sensuali dal collo d’una dignitosa donna di mezza età. Allora si restava seduti all’ombra della vigna al riparo del solleone di fine agosto: a vederli gonfiare un po’, gli acini, a farsi più arditi, più ammiccanti. Poi… maturare ancora un po’, diventare come insondabili saggi che snocciolano perle di sapienza nella luce riflessiva di settembre. E poi ancora, sul finire del mese di san Michele, e agli inizi del successivo, il rito della raccolta dei grappoli, tagliati con le forbici e posati sul carro trainato dal cavallo che avanza lentamente tra i filari. Una vendemmia fa così piacere! poetava il Pascoli. Ed in effetti, non solo il buon vino, ma anche la vendemmia sembra portare allegria, solare spensieratezza, e disperde la fatica del lavoro tra i canti, nel contagioso clima di solare euforia portato dal maneggiare le uve. E finalmente… il momento inebriante della pigiatura (ricordate a proposito, il simpatico, sebbene un po’ ingenuo film Il profumo del mosto selvatico?). Quindi il ritmo cambiava. Le ombre dei tramonti s’allungavano, salivano le prime nebbie, l’aria si raffreddava, si sentiva sotto la pelle l’insinuarsi del piacevole torpore del sonno.Nella prime classi elementari si disegnavano i grappoli e le foglie di vite, s’imparava a memoria quella nomenclatura – vinaccioli, raspo, viticcio … – che si scordava fino all’anno successivo. Quindi nelle cantine al ribollir dei tini si compiva l’annuale miracolo: i grappoli diventano mosto, poi vino! Un miracolo che si perde nella notte dei tempi. Infatti la storia del vino accompagna la storia dell’umanità stessa. Chi ne fu l’inventore? Chi fu il genio che vedendo un grappolo d’uva penzolare dai tralci, pensò di poterne tirar fuori una bottiglia di Brunello di Montalcino? Probabilmente non ci fu alcun genio, e l’invenzione del vino avvenne – come per la maggior parte delle cose – quasi per caso (un quasi che fa sempre riflettere). Fatto sta che il termine vino pare che sia antichissimo e provenga dal sanscrito vena (=amare), da cui deriva anche il termine Venere. Nel Valdarno, nei pressi di Montevarchi, sono stati ritrovati reperti fossili di tralci di vite risalenti a 2 milioni di anni fa. E in un villaggio nell’Iran settentrionale, è stata ritrovata recentemente da un gruppo di archeologi una giara di terracotta del neolitico contenente una sostanza secca proveniente da grappoli d’uva. Sembra che i reperti risalgano a 7 mila anni fa. Ma alcuni affermano che il primo vino sia stato prodotto sui pendii del Caucaso circa 10 mila anni or sono. Il vino è da sempre, nella cultura, segno di forza e di esuberanza vitale. Nella lingua italiana questo legame è ancor più evidenziato dal fatto che i termini vite e vita sono assai simili. Ma il vino ricorda allo stesso tempo il legame con la terra; ogni boccale che porta piacere e allegria contiene in sé il ricordo della fatica, della pazienza del contadino che per un intero anno ha accudito la pianta e il suo frutto. Neruda ci lasciò queste poetiche parole: ricordino in ogni goccia d’oro/ o coppa di topazio/ o cucchiaio di porpora/ che l’autunno lavorò fino a riempire di vino le anfore/ e impari l’uomo oscuro/ nel cerimoniale del suo lavoro/ a ricordare la terra e i suoi doveri/ a diffondere il cantico del frutto. La Grecia antica – come tutti i Paesi che s’affacciano sul bacino del Mediterraneo – ben conosceva e apprezzava il frutto della vite. L’Odissea canta come a Itaca Ulisse, nella sala del tesoro, conservasse non solo oro, bronzi, tessuti, olio, ma anche vasi di vino vecchio, dolce da bere. E nella mitologia greca si racconta che Dioniso chiese un giorno a Sileno, suo maestro, un consiglio su come fingere di fare una guerra senza l’uso delle armi. Perché il suo pigro pacifismo non era gradito agli altri dèi. Questi gli consigliò di usare tirsi e tamburi (che facevano solo rumore) e soprattutto qualcosa che assomigliasse al sangue: il vino. Se spremi questi frutti – gli disse – ne viene fuori un liquido uguale al sangue; se te ne cibi, danno al corpo la stessa energia. E così Dioniso evitò di spargere sangue, salvando allo stesso tempo il suo onore guerriero nell’Olimpo. La Bibbia è ricca di riferimenti alla vigna. Di buon mattino andremo alle vigne/ vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni: là ti darò le mie carezze! inneggia il Cantico; e continua: La vigna mia, proprio mia, mi sta davanti ; i Salmi la paragonano alla sposa virtuosa: La tua sposa come vite feconda, nell’intimità della tua casa… mentre per l’amareggiato Geremia diventa metafora del tradimento d’Israele: Io ti avevo piantato come vigna scelta, tutta di vitigni genuini; ora, come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda?. Noè dopo il diluvio, appena sbarcato sulla terra ferma, s’affrettò a piantare un vite, per segnare il suo ritorno alla fiducia nel mondo e nell’avvenire. Perché ogni vite è un progetto: si pianta, poi ci vogliono anni di paziente cura prima di goderne il frutto. Anche Gesù, nel suo linguaggio colorito di parabole, non disdegna d’usare il paragone con la pianta: Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna… Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo… Io sono la vite, voi i tralci. E, per la fede cristiana, il frutto della vite diventa, nel rito dell’Eucaristia, insieme al pane, il corpo del Cristo, sua presenza nei secoli tra l’umanità. Avevamo detto per qualche istante, di lasciarci trasportare dal ritmo lento e solenne del passato. Ora: tempo scaduto! Ma, spero… non tempo perso.

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