Il calvario, il muro, il memoriale

Viaggio difficile, quello di Benedetto XVI in una regione dove soffrono tutti: israeliani e palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani. Il suo ruolo di pontefice, cioè costruttore di ponti.

 

«Visita altamente perigliosa, quasi impossibile da gestire con un minimo margine di tranquillità», quella cui s’è sottoposto Benedetto XVI in Terra Santa, secondo le parole del nunzio, mons. Antonio Franco. I colpi di scena si sono in effetti susseguiti, le dichiarazioni si sono rincorse, le polemiche sono nate e sono morte tra un discorso e l’altro, le immagini epocali si sono fissate nella mente.

In quell’incrocio ineguagliato di culture, religioni e popoli che sono Gerusalemme e la sua regione, ogni atto e ogni parola acquistano infatti un profumo, un suono, un colore, un gusto e una consistenza ogni volta diversi. Gerusalemme è un luogo dove il Cielo ha parlato e agito come in nessun altro posto. In modi diversi.

Partendo da Tel Aviv, al termine del lungo viaggio, il papa ha ricordato le «conversazioni feconde con le autorità civili sia in Israele sia nei Territori palestinesi», gli incontri coi cattolici e coi cristiani, e quelli con esponenti di altre religioni. Ed è proprio su questi tre livelli che mi sembra vada letta l’intera visita in Terra Santa.

 

I cristiani come Marlene

 

Marlene Rock – una donna tutta d’un pezzo – è insegnante, sposata con Hannah, profugo nel 1948 da Ein Karem, luogo della Visitazione. Quattro figli, vivono in una casa modesta ma decorosa: il salotto è come un cortiletto con le porte e le scale a vista. E quadri di Madonne, di san Giorgio, dell’ultima cena. Uno scaldabagni è infisso al muro.

La storia del marito basterebbe per capire la complessità della Terra Santa: «Avevo due anni quando, nel 1948, siamo stati costretti dagli israeliani a fuggire a Betlemme. Più tardi sono tornato nella mia casa natale, trovandovi una famiglia ebraica che l’aveva acquistata dal governo». Si interrompe, vuol trovare le parole giuste: «Le mie radici restano là, ma così abbiamo fatto felice un’altra famiglia». Mi svela un particolare non da poco: «Eravamo proprietari di parte del Bosco di Gerusalemme, sette ettari, dove ora è stato edificato il Memoriale dell’Olocausto, Yad Vashem. Anche da questa spoliazione, in fondo, sono ormai libero: sono contento che sia servito a qualcosa di importante».

La famiglia Rock è uno spaccato del cattolicesimo di queste parti e delle sue divisioni. Il figlio Joseph dice: «Sono stato scelto assieme alla mia fidanzata Razan per portare le offerte all’altare nella messa del papa. Sono felice, ma lo sarei stato di più se Benedetto XVI avesse deciso di celebrare la messa a Gaza». Il fratello Michel la pensa diversamente: «Questo è un pellegrinaggio nei luoghi della vita di Gesù. Purtroppo i cristiani non sono stati preparati alla visita, di cui si è parlato più in tv che dai pulpiti».

Marlene conclude il quadretto familiare. Evoca i «gravi problemi economici e il non potersi muovere liberamente. Il muro sta uccidendo la vita in queste nostre terre». Minoranza nella minoranza? «È vero, ma si può guardare la vita come a un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Io lo vedo mezzo pieno. Gesù stesso non si è mai lamentato perché il suo era un “piccolo gregge”. È andato avanti posando uno sguardo positivo su cose e persone. Siamo cristiani, ma siamo anche palestinesi, e questo ci unisce ai nostri fratelli musulmani». E racconta dei suoi sentimenti: «Il papa è un grande sostegno per i cristiani della Terra Santa. Ci mostra che non dobbiamo odiare nessuno, dobbiamo avere sentimenti di fraternità con tutti».

La storia di Marlene mi sembra spiegare il contesto che il papa ha trovato in Terra Santa in ambiente cattolico. Ma il clima è via via mutato: dalla messa al Getzemani con appena tre-quattromila presenti di cui poche centinaia del luogo (le inflessibili forze dell’ordine erano seimila, due soldati per ogni fedele), s’è passati al calore di Betlemme, dove le presenze sono state almeno diecimila, più della metà composta da cristiani locali (anche da Gaza) con una buona partecipazione musulmana, per finire alle 40 mila presenze in Galilea, a Nazareth.

La visita, auspicata da chi voleva “accreditarsi” presso la comunità internazionale, era guardata con sospetto proprio da buona parte della comunità cattolica, angosciata per il suo futuro. L’esperienza di questi ultimi decenni aveva messo infatti nel loro animo la convinzione che al peggio non c’è limite, e che quindi ogni turbamento alla tregua del momento rischia solo di portare a un peggioramento della situazione. Ma il papa ha poi saputo conquistarsi i “suoi”.

 

Dialogo interreligioso

 

Altro capitolo, quello del dialogo interreligioso, espressione che ormai Benedetto XVI usa di continuo. Anche qui, l’inizio della “tappa” di Gerusalemme non è stato dei migliori, in una riunione con le associazioni impegnate nel dialogo interreligioso. Lo sceicco Tayseer al-Tamimi, capo della Corte islamica dell’autorità palestinese, ha infatti preso il microfono senza preavviso, denunciando lo Stato di Israele e le angherie che i palestinesi subiscono dagli israeliani nella Terra Santa: «Israele ha fatto di Gerusalemme una prigione, vietando ai musulmani e ai cristiani di accedervi e vietando le preghiere nelle chiese e nelle moschee, e a Gaza Israele non ha rispettato i diritti umani». Il papa ha salutato tutti e se n’è andato. Padre Lombardi ha chiosato: «In un evento dedicato al dialogo, tale intervento è stato una negazione del dialogo». «Una vergogna», per il ministero degli Esteri. Poteva essere l’inizio di una discesa senza fine nelle polemiche.

Che invece l’incidente non fosse il preludio di un disastro totale lo si è capito già al buffet che ha seguito l’incidente. La gente non pareva scossa più di tanto dall’intervento dello sceicco: erano dichiarazioni già conosciute. Semmai, come mi diceva un giovane professore cristiano di Betlemme, «cristiani e musulmani non condannano il contenuto del discorso dello sceicco, ma la sua forma». Una coppia di medici di Gerusalemme, musulmani, mi spiegavano: «Le parole dello sceicco esprimono la frustrazione della gente, che la comunità internazionale non ascolta».

Gli ebrei presenti conversavano tranquillamente con cristiani e musulmani: «È un grandissimo onore ricevere il pontefice – mi diceva un sessantenne, qui con moglie e due figli –, e non sarà certo questa dichiarazione importuna dello sceicco a farci cambiare di opinione. Il dialogo non so se è possibile, ma in ogni caso è necessario; le incomprensioni sono umane, mentre il dialogo deve essere umano e divino nello stesso tempo». E rabbi David Rosen: «Dialogare non è mettere la testa sotto la sabbia. È guardare in faccia l’altro, il diverso. Con la ragione e non solo con la fede, come dice Benedetto XVI». Rabbi Rosen è stato poi colui che ha alzato la mano del papa nell’incontro interreligioso a Nazareth, invitando il papa ha fare lo stesso con il muftì a lui accanto. È quest’immagine che resterà.

 

Il muro interrotto

 

Certamente il capitolo più complesso del viaggio è stato però quello dei rapporti tra israeliani e palestinesi. È soprattutto su questo terreno che Benedetto XVI ha mostrato la sua fermezza e la sua apertura. Se ha dichiarato più volte di «essere venuto a visitare questo Paese come amico degli israeliani e come amico del popolo palestinese», non ha esitato ad auspicare soluzioni rapide e giuste al conflitto: «Venga universalmente riconosciuto che lo Stato di Israele ha il diritto di esistere e di godere di pace e sicurezza entro confini internazionalmente riconosciuti, e sia ugualmente riconosciuto che il popolo palestinese ha il diritto a una patria indipendente e sovrana, a vivere con dignità e a viaggiare liberamente». Due popoli, due Stati, insomma.

Partendo il papa ha affermato: «Durante la mia visita in queste terre una delle immagini più tristi per me è stata quella del muro». Il muro da lui visto al campo per rifugiati di Aida, a Betlemme, dove ha avuto l’unico vero contatto fisico col popolo, per quelle ragioni di sicurezza che ovviamente l’hanno tenuto lontano dalla gente.

Quel muro che non si sta rivelando tanto una security fence, una barriera di sicurezza come dicono gli israeliani, rimproverando al papa di aver usato il termine wall, cioè muro, quanto un modo per annettere territori ritenuti strategici militarmente, ma anche per le fonti d’acqua e i collegamenti, e ridurre così i Territori palestinesi a un “arcipelago” in cui i collegamenti tra le varie “isole” sono difficilissimi.

Ne sono stato testimone, recandomi a Betlemme alla messa papale per una via secondaria, perché il check point della via normale era stato chiuso. Nessun controllo! Si dice che il muro abbia evitato la continuazione degli attacchi dei kamikaze; ma la cosa appare assai dubbiosa, visto che attraverso tali passaggi secondari in Israele potrebbe entrare qualsiasi cosa.

Ma il papa non ha mai parlato “contro” qualcuno. Ha sempre additato l’orizzonte della pace, citando più volte Giovanni Paolo II e riprendendone anche alcune sue espressioni. Ha affermato: «Gli amici gradiscono trascorrere del tempo insieme in compagnia gli uni degli altri e provano profondo turbamento nel vedere la reciproca sofferenza. Nessun amico degli israeliani e dei palestinesi può far a meno di piangere per la sofferenza e la perdita di vite che entrambi i popoli hanno subìto negli ultimi sei decenni».

E ha lanciato un appello, riprendendo gli slogan tante volte ripetuti da Giovanni Paolo II: «Mai più spargimento di sangue! Mai più combattimenti! Mai più terrorismo! Mai più guerre! Al contrario, facciamo in modo che vi sia pace durevole basata sulla giustizia, che vi siano riconciliazione e risanamento autentici!».

 

Tutti hanno guardato a lui

 

Intervista al nunzio apostolico per Israele e Cipro, e delegato apostolico per Gerusalemme e la Palestina, mons. Antonio Franco.

 

«Israeliani e palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani: tutti si aspettavano qualcosa dalla visita del papa, per rimuovere le radici dell’incertezza e della paura. In questo scacchiere è in gioco l’intera comunità internazionale, perché i soggetti in campo non hanno la forza di trovare tra di loro una soluzione: Israele in effetti non è sicuro che tra un certo numeri di anni non sia spazzato via un’altra volta, e i palestinesi non hanno la certezza di vivere in una terra indipendente, quella dove sono vissuti i loro padri.

«Il potenziale per lo sviluppo della regione tuttavia c’è, eccome, ma non si riesce a metterlo in moto: tutti aspettano. Perciò si guardava alla visita del papa come ad una possibile via d’uscita, perché lo sconforto sembra aver catturato da tempo tutti i soggetti in gioco, soprattutto dopo il naufragio della proposta di Annapolis.

«Ed effettivamente la presenza di Benedetto XVI sembra avere rimesso in marcia il contesto politico, religioso e sociale della regione lungo un cammino di speranza. Il papa ha dato una parola di speranza a tutti, dimostrando che si può avere fiducia nella buona volontà degli altri».

 

Giordania

preghiera e ragione

 

La visita di Benedetto XVI in Giordania è stata lineare. Il papa, ancor prima di atterrare ad Amman, ha voluto mettere in chiaro le sue intenzioni, poste su tre livelli: primo, coi credenti, essere «convinti che la preghiera sia una vera forza: apre il mondo a Dio»; secondo, «aiutare nella formazione delle coscienze»; terzo, «parliamo anche della ragione».

E tutti i discorsi del papa in Giordania si sono posti su questi livelli. Ad esempio, alla moschea al-Hussein bin-Talal, ha ricordato che «l’adesione genuina alla religione, lungi dal restringere le nostre menti, amplia gli orizzonti della comprensione umana». E alla posa della prima pietra dell’università cattolica di Madaba (una grande soddisfazione per il “professor Ratzinger”), non ha usato parole ambigue: «La religione viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso».

Il papa si è indirizzato a ebrei, musulmani e cristiani. Al Monte Nebo ha detto: «L’antica tradizione del pellegrinaggio ai luoghi santi ci ricorda l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebraico». Alla moschea (dove ha potuto tra l’altro salutare il principe Ghazi da lui già conosciuto, che ha offerto una visione positiva del pensiero di papa Ratzinger sui rapporti col mondo musulmano, “chiudendo” in qualche modo la frattura di Ratisbona), ha affermato: «Musulmani e cristiani devono oggi impegnarsi per essere conosciuti e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell’Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli, coerenti nel dare testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono». E ai cristiani ha cercato di infondere speranza, allo Stadio di Amman: «Che il coraggio di Cristo nostro pastore vi ispiri e vi sostenga quotidianamente nei vostri sforzi di dare testimonianza della fede cristiana e di mantenere la presenza della Chiesa nel cambiamento del tessuto sociale di queste antiche terre».

 

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