Il 40° del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso

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Ogni cifra tonda dà lo spunto per un bilancio. Cosa è rimasto dell’ispirazione originale del 1964, e cosa è maturato in più nel 2004? L’ispirazione originale risale al Vaticano II, con la visione di una chiesa in dialogo, sempre e con tutti: all’interno della chiesa, con gli altri cristiani, con altri credenti e anche con il mondo della non credenza. È interessante il fatto che Paolo VI abbia istituito questo ufficio a Pentecoste, per sottolineare l’azione dello Spirito Santo nel mondo, nei cuori delle persone, nel bene esistente nelle religioni, nelle loro tradizioni e nei loro riti. Questa ispirazione rimane; anzi, mi sembra che sia stata amplificata dall’insegnamento di Giovanni Paolo II, che ha insistito non poco sul ruolo dello Spirito Santo nelle sue encicliche Dominum et vivificantem et Redemptoris missio, in cui egli considera il dialogo interreligioso come parte integrante della missione evangelizzatrice della chiesa. Nel mondo di oggi, poi, si nota una crescita dell’urgenza del dialogo, di un pluralismo più marcato, specialmente nel mondo occidentale. E altri problemi di società fanno sì che un’attenzione al dialogo sia necessaria. Credo che, dopo qualche anno in cui si sono messe le fondamenta teologiche del dialogo, sia subentrata una accresciuta coscienza della sua necessità. Naturalmente tutto non è perfetto, ed è per questo che il nostro consiglio esiste: per incoraggiare le chiese locali nei loro rapporti con persone di altre religioni. Una delle accuse rivolte più spesso a coloro che sono impegnati nel dialogo interreligioso è quella di addirittura quella di cedere alle sirene del sincretismo… C’è chi subisce la tentazione del relativismo; ma questo non è l’atteggiamento della chiesa. Noi abbiamo l’esempio di Giovanni Paolo II: lui stesso è fermissimo nella sua fede cattolica, predica, insegna Gesù come Salvatore e come Signore, e ci esorta a contemplare il suo volto. Ma nello stesso tempo ha fatto alcuni passi fondamentali verso le altre religioni, seguendo le orme di Paolo VI, seppur con il suo proprio stile: si ricorda la storica visita alla sinagoga di Roma, il suo pellegrinaggio in Terra Santa, le sue preghiere, i suoi gesti, la visita alla moschea di Damasco… Tutti gesti profondi, traduzione della fede del ad un facile irenismo, se non addirittura pontefice, che ci dice come il dialogo non si debba attuare a scapito della identità cristiana. Anzi, se uno è fermo in essa, è poi più libero di incontrare l’altro, non ha paura e può anche suscitare una collaborazione con fedeli di altre religioni. Il dialogo non è solo discussione, ma soprattutto vivere insieme e collaborare. Rimanere sé stessi e accogliere in sé l’altro. Quale consiglio darebbe, ad esempio, a cristiani che si trovano in una parrocchia a dover convivere con tanti musulmani? Un ostacolo al buon rapporto con persone di altre religioni è spesso l’ignoranza. Una cosa importante sarebbe perciò quella di cercare di avere una qualche conoscenza dell’Islam, e poi di incontrare i vicini musulmani. La conoscenza aiuterà a non fare sbagli, a cercare di stringere la giusta amicizia con loro. Perché il dialogo si costruisce sulla fiducia. E poi mi sembra importante approfondire anche la conoscenza della nostra fede, perché i nostri interlocutori pongono spesso domande alle quali talvolta il cristiano non sa rispondere. Credo che nell’incontro con l’altro non dobbiamo avere paura di dimostrare che abbiamo una fede vissuta, una fede che non è solo preghiera ma anche azione in favore dei bisognosi. Si sente dire che nel dialogo è necessaria la reciprocità… Forse questo termine di reciprocità non è il più adatto, perché richiama troppo la diplomazia, ad esempio nella concessione dei visti. Non può essere così per chi segue il vangelo: non possiamo fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Noi incoraggiamo gli altri a rispettare la libertà religiosa, in tutto il significato della parola. Credo che nella questione dei rapporti tra cristiani e musulmani si tenda a giudicare il mondo islamico sulla base di un solo paese, l’Arabia Saudita, dove effettivamente non c’è libertà religiosa, il che è sbagliato. In altri paesi, invece, come in Qatar, l’emiro ha concesso un terreno per la costruzione di una chiesa. È vero, in certi paesi ci sono restrizioni alla libertà religiosa, ci sono problemi di visti per i sacerdoti e i religiosi, o non è sempre facile stampare o importare libri cristiani; e ancor meno è possibile cambiare di religione. Mi sembra che si debba auspicare un progresso in questo senso. E qualcosa avviene: ad esempio, in Germania è stata pubblicata una carta dei musulmani tedeschi, che accettano il principio della libertà religiosa, compresa la possibilità di cambiare religione. Spirano venti di guerra, intrecciati troppo spesso con i problemi tra le diverse comunità di credenti. Da Assisi 1986, la via congiunta del dialogo e della pace ha preso un nuovo slancio. A che punto siamo? Il nostro mondo ha bisogno di pace. Credo che ci sia bisogno di una profonda riflessione sui modi di condurre i rapporti internazionali fra stato e stato: abbiamo visto come nel suo messaggio per l’ultima giornata della pace, il papa abbia insistito sul diritto internazionale e sulla riforma dell’Onu. Il nostro consiglio non s’interessa direttamente di queste cose, perché ci concentriamo sui rapporti tra responsabili di religioni e comunità religiose. Credo che i leader religiosi abbiano una certa responsabilità nel formare una opinione pubblica favorevole alla pace, alla riconciliazione, contro la vendetta, contro il ricorso alle armi per trovare soluzione ai problemi. Tuttavia mi sembra che ci siano degli organismi internazionali interreligiosi che apportano utili contributi al servizio della pace. Mi riferisco ad esempio alla Conferenza mondiale delle religioni per la pace, che ha istituito dei consigli interreligiosi in alcuni paesi per evitare i conflitti o, più spesso, per facilitare la fase di ricostruzione di un paese traumatizzato dalla guerra. Ma si vedono anche alcuni gruppi, ad esempio in Indonesia, in cui leader di tutte le religioni convengono per incoraggiare le comunità a non lasciarsi manipolare da agenti esterni che istigano le comunità l’una contro l’altra. Agenti, tra l’altro, che quasi sempre non hanno nulla a che fare con la religione. Lo spirito di Assisi, insomma, avanza, come si è visto anche nel 2002, in cui c’è stata una buona risposta all’invito del papa. I dieci impegni per la pace presi in quell’occasione forse dovremmo rinfrescarli. Quali sono le forze di cui si serve il consiglio da lei diretto per attuare un proficuo dialogo interreligioso? La forza spirituale, innanzitutto, e cioè la fede in Dio e nell’azione dello Spirito Santo. C’è poi la forza degli antenati di questo consiglio, come i cardinali Marella e Pignedoli e mons. Rossano, e anche quella del mio predecessore immediato, il card. Arinze, prefetto della Congregazione per il culto divino. Tutte persone che si sono impegnate a fondo per far progredire il dialogo. Il nostro personale è limitato: siamo solo in tredici, con una parrocchia vasta come… due terzi del mondo! Ma per fortuna non tocca a noi attuare tutto il dialogo. Contiamo sulle forze delle comunità cattoliche, perché il dialogo si fa alla base. Credo che in questi quarant’anni, per tornare alla domanda iniziale, c’è stata anche una presa di coscienza della necessità di avere strutture per il dialogo, come delle commissioni per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, o istituti di studio e di consulenza teologico- pastorale. Come ho già detto, la forza per noi sta anche nell’insegnamento del magistero, che conferisce un fondamento molto solido al dialogo con persone di altre religioni.

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