Ibrahim Souss tra mondi diversi

Dopo aver cercato, col saggio Lettera a un amico ebreo, di far chiarezza in un conflitto assurdo – quello tra israeliani e palestinesi – attraverso una disamina lucida, anche se appassionata, degli opposti punti di vista, Ibrahim Souss, considerato uno dei più prestigiosi intellettuali della diaspora palestinese, sembra privilegiare la via della narrativa per raggiungere lo stesso scopo. Propone cioè al cuore e alla mente del lettore, anestetizzato da ogni sorta di messaggio, storie fortemente coinvolgenti ed emblematiche di certe situazioni, per suscitare in lui una presa di posizione di fronte alle contraddizioni e ai drammi dell’uomo che cerca felicità procurando invece rovine. Del resto è costume tutto orientale, che si perde nella notte dei tempi, suscitare la riflessione che induce alla sapienza mediante racconti e parabole che attingono al vissuto, da ascoltare magari nelle veglie attorno al fuoco. Figlio di una terra la cui realtà complessa e sfaccettata risulta difficilmente decifrabile a noi occidentali, Souss può parlare con cognizione di causa. Ma avendo vissuto la propria formazione intellettuale fuori della sua patria, ha il vantaggio anche di una visuale più distaccata e obiettiva. Inoltre è artista che spazia tra letteratura e musica, due ali che lo sollevano al di sopra di ogni steccato. L’intera sua opera trae spunto dall’ oscura e insensata inimicizia fra due popoli che si appellano in fondo allo stesso Dio: due antagonisti dei quali egli mette in rilievo in egual misura la sofferenza. Così nei romanzi Le rose dell’ombra, canto d’amore verso la propria terra negata, dal finale tragico; Lontano da Gerusalemme, versione moderna di Romeo e Giulietta in un contesto violento, acceso e implacabile; e infine Le rondini di Gerusalemme (pubblicato, come gli altri due e la citata Lettera, da Tranchida). Anche in quest’ultimo romanzo Souss riesce a restituirci con efficaci pennellate il peso della storia e la lotta per gli ideali e per i sentimenti, via via più riflessiva e amara col trascorrere del tempo e lo spegnersi degli ardori giovanili. Nel 1934, in fuga dalla Germania nazista, Isaac Feingold emigra con la famiglia in Palestina, in una Gerusalemme occupata dalle truppe inglesi, dove cristiani, ebrei e musulmani convivono ancora in pace. Salomé, la figlia di Isaac, stringe amicizia con uno dei loro nuovi vicini, Baghat Abdelhamid, proprio mentre la tensione aumenta nella città santa, compromettendo l’armonia tra le due comunità. I primi attentati dell’Irgun e della Banda Stern danno esca a un grande movimento di rivolta popolare. Ma gli eventi che insanguinano il paese non fanno che rafforzare l’amore nato tra i due ragazzi. 1947: l’Onu vota la partizione della Palestina e subito dopo il primo conflitto arabo-israeliano esplode. Costretti a dividersi, i due innamorati intraprendono ciascuno la propria strada, sposandosi e mettendo su famiglia. Passano gli anni, anni di fuoco e di sangue. Baghat, nel frattempo, è riuscito a entrare in al-Fatah e a diventarne dirigente. Tuttavia, di fronte a una realtà sempre più torbida, ai lutti che l’appartenenza a ideologie o a religioni diverse non giustificano, pian piano le sue certezze vengono intaccate. Salomè e Bahgat si rincontreranno, lei ormai resa vedova dall’odio fra i due popoli; ma ancora una volta saranno divisi: Shlomo, il figlio del loro amore (ma Bahgat lo ignorerà fino alla fine), imbracciate anch’egli le armi per difendere il popolo ebraico, aggiungerà altro sangue uccidendo inconsapevolmente il fratellastro, per poi perdere a sua volta la vita, vendicato dagli uomini del suo padre naturale. L’ultima scena contrappone ai militanti ipnotizzati dalla diretta televisiva che documenta la stretta di mano tra Arafat e Rabin alla Casa Bianca, un Bahgat distrutto: “Con le mani in tasca, cominciò a camminare, seguendo scrupolosamente il bordo del marciapiede, come faceva da bambino. Si allontanò così, svuotato, senza meta, cullato dal suono degli apparecchi televisivi la cui eco risuonava a caso per le strade. Camminò diritto davanti a sé, senza lacrime, senza odio”. L’intreccio farebbe pensare ad una storia sentimentale a tinte forti, ma tale non è il romanzo: attraverso crudezze ma anche momenti di grande delicatezza e poeticità, Souss vuol denunciare l’irragionevolezza dell’odio: gli uomini sono troppo legati fra loro, anche quando appartengono a mondi diversi, e colpire uno solo è in ogni caso far male a sé stessi. Ibrahim souss è nato nel 1945 a Gerusalemme da un’antica famiglia cristiana. Laureato in Lettere e diplomato all’Istituto di Studi politici e della Fondazione nazionale delle Scienze politiche di Parigi, si situa fra i più importanti autori arabi contemporanei. Pianista compositore, formatosi presso l’Ecole Normale de Musique di Parigi e presso il Royal College di Londra, a partire dal 1978 ha dedicato la propria attività all’Organizzazione per la liberazione della Palestina. È stato delegato generale e ambasciatore del suo paese in Francia dal 1978 al 1993, rappresentante dell’Olp presso l’Unesco e fautore dell’accordo di pace fra Isreaele e Palestina. Attualmente vive tra Ginevra e Amman e insegna in importanti università in Medio Oriente, in Svizzera e negli Stati Uniti. Ha pubblicato saggi, romanzi e raccolte di poesie. La sua Lettera a un amico ebreo è stato uno dei primi saggi sulla pace in Medio Oriente, tradotto in 16 lingue.

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