I giorni del cinema

Una rassegna ampia, dall’1 all’11 settembre. Ma in tono crepuscolare. Luci e ombre sul Venezia.
Festival del cinema di Venezia

Piove e tuona. Dentro la grande sala Darsena – una delle cinque in cui si svolgono le proiezioni – siamo perplessi. Sarà un temporale vero o invece è quello che stiamo vedendo sullo schermo? Perché di film “piovosi” quest’anno a Venezia ce n’è in quantità. All’uscita, la realtà. Diluvia. In tanti siamo senza ombrello. Un guaio dimenticarselo, perché il clima ci sta facendo vivere le quattro stagioni: caldo, afa, pioggia e frescura (molta). Un po’ come il pantagruelico programma della rassegna, dove ce n’è per tutti i gusti: dall’horror al patetico, dal socio-politico all’esistenzialista, dal picaresco al fantastico, al brillante.

 

E come la gente di cinema: registi e attori glamour e piccole star – nostrane e straniere, donne spesso dai tacchi improbabili come i vestiti – in cerca di un attimo di gloria in sala, all’Hotel Excelsior o in spiaggia. Grandi nomi, pochi. Non ci sono Brad Pitt e George Clooney, mentre Dustin Hoffmann ha dato forfait.

Per fortuna, ci sono Catherine Deneuve e Sofia Coppola, Vincent Gallo e Ben Afflek, John Woo, Helen Mirren, Julian Schnabel. E poi la squadra italiana, con la “presentatrice” Isabella Ragonese, Kim Rossi Stuart, l’“Alba” (Rohrwacher) nazionale, Cristiana Capotondi e Michele Placido, sempre vulcanico col suo film su Vallanzasca.

 

Di corsa al cinema

 

La proiezione finisce e via di corsa in doppia, tripla direzione. O a fare la solita coda per un altro film: stessa o diversa sala, non cambia, la coda è d’obbligo, ingoiando un panino per pranzo o cena, per chi almeno non vuol perdersi i 23 film “in concorso” (perché ci sono gli altri, a volte migliori, nelle sezioni “Fuori Concorso”, “Orizzonti”, “Controcampo italiano”, eccetera).

Oppure, si sale al secondo piano del Casinò per le conferenze stampa, al ritmo di una ogni mezz’ora (quando ci si riesce), dove i giornalisti italiani e stranieri – quest’anno gli spagnoli sono tanti – incalzano con le domande più o meno interessanti registi e attori. I quali ci scherzano sopra, rispondono a tono, o si lasciano andare a lunghe dichiarazioni d’intenti. Qualcuno anche, il nostro Placido non troppo placido, la mette in politica. Vedere i giornali e sentire gli onorevoli del giorno dopo (la cara Italietta)… Anche questo è spettacolo.

Infine, il terzo luogo dove approdare, l’Hotel Excelsior, lustro di specchi e di marmi. Qui gli “eventi” procedono a ritmo incalzante nei vari stand: Lancia, Cinecittà, Ente dello Spettacolo, Regione Veneto, Regione Sicilia e poi il premio allo scenografo Dante Ferretti, al miglior giovane attore Michele Riondino, e così via. Bella questa vivacità. Si parla di tutto. Di cultura, di progetti internazionali, si vende e si compra: Venezia è anche un mercato e i film non basta farli né presentarli in mostra, se non c’è chi li compra e li “distribuisce” nel mondo a farli vedere.

 

Per fortuna, tra un convegno, una corsa e una proiezione, capita di incontrare gente di cinema sul serio. Come un Filippo Timi che col vocione chiama una certa Laura che non lo sente. Un altro giorno, all’alba – per lui, ma sono le undici del mattino – mi capita davanti Vincent Gallo (presente in ben tre lavori): pallido come un cencio, occhiali scuri, faccia distrutta forse dal dopo-cinema notturno con la sarabanda delle feste (ma quest’anno sono diminuite, causa crisi economica), dove si parlotta molto, si mangia poco e ci si “imbuca” per dire “c’ero anch’io”. Venezia è anche una commedia della vita.

Nello “Spazio movie”, il parco dove si mangiano panini e pasti caldi a prezzi meno spropositati della trattoria dove i veneziani ti fanno pagare una pesca euro tre-e-cinquanta, si aggira la barbetta a punta di Ascanio Celestini (presente con La pecora nera). Per strada, inseguito dalle ragazzine urlanti, ecco addirittura lui, Quentin Tarantino, presidente della giuria, molto in carne, ironico, look sul nero casual. Ma il clou degli incontri è l’ora della sfilata sul tappeto rosso, da mezzogiorno in poi, di fronte al Palazzo del cinema.

 

Tra cinefili e red carpet

 

 Davanti a questo edificio rivestito di soli grandi tabelloni rossi (i tagli del governo si fanno sentire), ci passano tutti: i cinefili, i critici – quelli dei grandi quotidiani e “gli altri” –, gli appassionati e quelli che si fanno un solo weekend di cinema.

Dimentichiamo le folle delle edizioni passate, le sale strapiene con le persone che non possono più entrare, anche se quest’anno si sono venduti il 17 per cento dei biglietti in più rispetto al 2009. Il popolo del cinema, comunque, c’è. Giovani, soprattutto, in jeans e giacca (quest’anno va così), studenti del Dams o critici di siti cinematografici. Qualcuno viene dall’estero, come Andrea, romano che sta a Berlino da dove manda i “pezzi” per varie riviste. Per trovare lavoro, ha dovuto emigrare… Amano alla follia il cinema, ascolto i loro commenti – variegati, liberi – e hanno le occhiaie. Perché dalle otto del mattino a dopo mezzanotte sono in sala a vedere film o a sentire conferenze e poi a scrivere. Affittano con gli amici a prezzi sempre troppo alti per loro degli appartamentini, vivono di pizze e di bottigliette d’acqua minerale. Quanto stress. Ma la passione la vince su tutto. Sulle giornate grigie o ventose che rendono il lido mesto e San Marco uno spettro in lontananza; e sulla voglia di vedere sfilare in passerella le star del cinema.

 

Spettacolo atteso da un insieme trepidante di ogni età che aspetta la sfilata della “delegazione” di un film, che, dopo i sorrisi ai fotografi vocianti e le dichiarazioni alle varie tivù, vede le star piegarsi docili davanti ai fan e regalare autografi. Ben Afflek semina sorrisi, Kim Rossi Stuart allarga le braccia, la Deneuve sorride benigna, Sofia Coppola è timida, Vincent Gallo sogghigna… È il gran momento per tutti, i fan e le star più o meno grandi. La gloria del red carpet che per qualcuno si ripeterà e per tanti, purtroppo, accadrà una sola volta. La selezione nel mondo del cinema è spietata. Meglio, dunque, godersi questi attimi, per poi sparire per la proiezione pubblica nella Sala grande. Dove l’atmosfera è assai diversa dalle proiezioni per i critici accreditati – qualche migliaio – che non lesinano i fischi e i “buu” a film che invece il pubblico “disimpegnato” applaude a lungo (ma allora chi ha ragione?).

 

Tanta voglia di cinema

 

Come si fa a districarsi tra le decine di film, le sezioni, le conferenze, gli inviti, i contatti, i “pezzi” da spedire in redazione? È un bel problema, da far venire l’emicrania. Perché le occasioni di un cinema che non sia solo spettacolo o presunzione non mancano. Venezia ogni anno, bisogna dirlo, regala qualcosa che ha a che fare con l’arte. Perciò, a differenza di quanto scrive Natalia Aspesi su Repubblica, non mi sento di abolire dalla rassegna lagunare la parola “arte”. Per fortuna, non tutto è commercio o commerciabile. Se il film premiato col Leone d’oro di Sofia Coppola è un bel racconto commovente di rapporto padre e figlia, dal taglio autobiografico, e se il Leone d’argento (vedi box) al catalano De la Iglesia è in linea col surrealismo tanto caro al mondo iberico, ci si commuove di più, forse, di fronte a certo cinema non spettacolare, non ripiegato su sé stesso, ma pieno di attenzione verso l’umanità.

Ci succede con i colleghi giornalisti, vedendo Ovsyanki del russo Aleksei Fedorchenco, storia d’amore oltre la morte di una coppia tra le nevi invernali; o con Noruwei No Mori del laotiano Tran Anh Hung, sul rapporto tra due giovani nella Tokyo degli anni Sessanta. Per non parlare de Il fossato del cinese Wang Bing, racconto desolato della solitudine in un campo di rieducazione maoista. Un film coraggioso che forse in Cina non si vedrà mai e che  spera in un intelligente distributore in Occidente. Già, perché questi film – ed altri – rischiano di essere momenti poetici riservati alla sola rassegna veneziana, mentre il pubblico ha diritto di vederli, per credere ancora al cinema come “arte”.

 

Grande l’attesa per i film italiani. Nessun premio per loro. Sembra quasi impossibile. Perché il risorgimento non retorico di Mario Martone (Noi credevamo) pieno di dolore, prende e fa pensare; l’umorismo un po’ nero di Mazzacurati ne La passione tocca corde inaspettate dell’interiorità, e La solitudine dei numeri primi di Costanzo è lavoro forse imperfetto ma di forte impegno morale.

Perché allora, ci si chiede con alcuni amici, Tarantino e la sua giuria – composta anche dai due italiani Salvatores e Guadagnino – non hanno dato uno sguardo “libero” al nuovo, anche se piccolo, cinema italiano?

È uno dei misteri di una mostra che, volendo essere “ecumenica”, mostra però dei limiti: ipertrofia dei titoli, orari sovrapposti delle proiezioni, film inconsistenti, ressa di premi collaterali di ogni tipo. Insomma, ci prende un poco di tristezza. Meno male che l’ultimo giorno il lido è rischiarato dal sole e San Marco, laggiù, risplende fino alle Prealpi, lontane e vicine. Un segno di speranza? Chissà. Magari con un nuovo Palazzo del cinema (si farà?), una selezione che non guardi troppo al commercio e maggior fiducia in tanti giovani autori. Anche italiani. Che qualcosa da dire ce l’hanno.

 

I premi

 

Leone d’oro

“Somewhere”

di Sofia Coppola

 

Leone d’argento alla regia

Alex de la Iglesia

“Balada triste de trompeta”

 

Premio speciale della giuria

“Essential killing”

di Jerzy Skolimowski

 

Leone d’oro all’insieme dell’opera

Monte Hellman

 

Coppa Volpi (attore)

Vincent Gallo

“Essential killing”

 

Coppa Volpi (attrice)

Ariane Labed

“Attenberg”

 

Premio Mastroianni (attore emergente)

Mila Kunis

“Black swan”

 

Premio Luigi De Laurentiis (opera prima)

“Cogunluk” (Majority)

di Seren Yüce

 

Osella per la sceneggiatura

Alex de la Iglesia

“Balada triste de trompeta”

 

Osella per la fotografia

Mikhail Krichman

“Silent souls”

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