I bambini di Betlemme e i bambini di Lesbo

Papa Francesco, nel suo recente viaggio in Grecia, ha incontrato i più piccoli e ha parlato loro, come aveva fatto due anni fa in Terra Santa. Il pianto dei bambini interpella tutti noi e per loro va costruito un mondo di pace
Papa Francesco a Lesbo

Ciò che abbiamo visto a Lesbo rinvia a quello che è accaduto a Betlemme due anni fa, il 25 maggio. Anche a Betlemme i bambini hanno incontrato il papa e hanno lasciato a lui canti, disegni, parole che raccontavano la loro sofferenza. Francesco ha detto loro: «Non lasciate mai che il passato determini la vostra vita. Guardate sempre avanti, lavorate e lottate per ottenere le cose che volete. Però sappiate una cosa: la violenza non si vince con la violenza. La violenza si vince con la pace! Con la pace, con il lavoro, con la dignità di fare andare avanti la patria!».

 

Ci ricordiamo le parole forti di papa Francesco nella piazza di Betlemme: «Ci sono ancora tanti bambini in condizioni disumane. Troppi bambini sono oggi profughi, rifugiati, a volte affondati nel mare, specialmente nelle acque del Mediterraneo. "Questo per noi il segno, troverete un bambino". Forse quel bambino piange, piange perché ha freddo, perché ha fame, perché vuole stare in braccio. Anche oggi piangono i bambini, piangono molto e il loro pianto ci interpella».

 

Ecco, il pianto di Betlemme è diventato il pianto dei bambini di Lesbo, che papa Francesco, il patriarca Bartholomeos e sua beatitudine Hieronymus, arcivescovo di Atene, sono venuti ad ascoltare e a portare con le loro vite di viandanti del Vangelo.

 

Nella dichiarazione congiunta hanno sottolineato il carattere strutturale e non semplicemente di emergenza della grande immigrazione nel Mediterraneo a causa della guerra: «Insieme imploriamo solennemente la fine della guerra e della violenza in Medio Oriente, una pace giusta e duratura e un ritorno onorevole per coloro che sono stati costretti ad abbandonare le loro case».

 

Questo significa che rimane aperto il problema non solo dei rifugiati, ma anche di coloro che sono rimasti ad Aleppo, Homs, Damasco, nelle loro case e nelle loro vite, cioè di coloro che continuano a pagare oggi il prezzo della guerra.

 

Milioni sono i rifugiati, ma milioni sono anche coloro che vivono ancora nella guerra e che non possono essere abbandonati e resi invisibili nelle loro condizioni estreme. Basti ricordare i disabili che non possono scappare e pagano della guerra il prezzo più alto.

 

La vera sfida, anche nel linguaggio dei tre uomini del Vangelo, appare il dolore delle famiglie e dei piccoli. Ancora la strage degli innocenti di Betlemme rimanda ai bambini della Siria, dell’Iraq, della Libia. I bambini, che non possono uscire per la loro situazione terribile, e quelli che sono usciti perché più forti e fortunati.

 

Il papa ha chiesto ai cristiani di essere come i samaritani della parabola e ha chiesto all’Europa una sapienza nell’accogliere i feriti, gli espulsi, gli abbandonati. Ma dobbiamo riconoscere che l’uomo battuto sulla strada è il mistero stesso di Gesù, che ci interpella e ci chiede di non lucrare sui poveri e sulla loro povertà.

 

Il papa di fronte ai giornalisti ha mostrato grande delicatezza e cautela affinché nessuno catturasse il suo gesto e lo esibisse come un trofeo nel delirio della politica. Il papa sa che il segno dell’accoglienza di alcune famiglie ha la misura della debolezza e non della forza, di un gesto di fraternità e non di una strategia di ong. Solo in questo modo si evita la cattura del potere.

 

Il papa si è inginocchiato davanti ai bimbi, ma il suo sguardo è andato oltre, verso quei luoghi della guerra che nessuno denuncia e verso quei luoghi della Siria che vivono la condizione dell'umiliazione e dell’abbandono.

 

Ecco il racconto che ha fatto ai giornalisti: «In quel campo dei rifugiati era da piangere! Ho portato con me, per farvi vedere, i disegni che i bambini mi hanno regalato. Cosa vogliono i bambini? La pace, perché soffrono; hanno visto anche bambini annegare. Questo i bambini l’hanno nel cuore! Davvero oggi era da piangere, era da piangere».

 

Il pianto del papa come preghiera nel dolore e il pianto come giudizio su coloro che hanno costruito e promosso questa tragedia, con le armi e con la cattiva politica, con i politicismi e le astuzie che strumentalizzano il dolore dei piccoli.

 

Infine il papa ha incontrato la comunità cattolica di Lesbo e così ha concluso il suo intervento: «Cari fratelli e sorelle, di fronte alle tragedie che feriscono l’umanità, Dio non è indifferente, non è distante. Egli è il nostro Padre, che ci sostiene nel costruire il bene e respingere il male. Non solo ci sostiene, ma in Gesù ci ha mostrato la via della pace. Di fronte al male del mondo, egli si è fatto nostro servo e con il suo servizio di amore ha salvato il mondo. Questo è il vero potere, che genera la pace. Solo chi serve con amore costruisce la pace. Il servizio fa uscire da sé stessi e si prende cura degli altri, non lascia che le persone e le cose vadano in rovina, ma sa custodirle, superando la spessa coltre dell'indifferenza, che annebbia le menti e i cuori. Grazie a voi, perché siete custodi di umanità, perché vi prendete teneramente cura della carne di Cristo, che soffre nel più piccolo dei fratelli, affamato e forestiero, e che voi avete raccolto».

 

Ecco la cristologia della pace, di cui i bambini e i piccoli sono segno, e che diventa giudizio quando si cerca il potere, la visibilità, l’esibizione dei nostri interessi, anche quelli ecclesiastici. Ecco i bambini di Betlemme e di Lesbo come maestri dell’unico Vangelo, come narratori della pace del più piccolo dei fratelli.                                                                                                                                                                          

Per il viaggio di Francesco a Lesbo leggi Papa Francesco e il patriarca Bartolomeo a Lesbo.

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