Hasek in fuga dalla mediocrità

Se mai vi accadesse di metter piede in qualche bettola e lì di scorgere in conversazione col suo bicchiere un tipo po’ alticcio, non siate precipitosi col giudizio: potrebbe, quel povero diavolo, corrispondere in realtà ad un artista, magari ad uno scrittore del calibro di Jaroslav Has?ek, che di bettole se ne intendeva almeno quanto di penna. Gli bastava infatti appoggiarla sul foglio per sfornare con incredibile facilità racconti e aneddoti su questa umanità che fa di tutto per non farsi prendere sul serio. Una vita, quella di Has?ek, all’insegna dell’irrequietezza, del paradosso e della contraddizione, come poche. Nasce a Praga nel 1883, lo stesso anno di Kafka (che gli sopravviverà di un anno). Dopo la morte del padre abbandona gli studi per finire commesso in un negozio di drogheria. Sempre pronto allo scherzo e alla burla, comincia a produrre i primi abbozzi di scrittura. E lo fa prendendo a modello Maksim Gorkij, il cantore dei vagabondi e degli emarginati. Trova poi impiego in una banca, dove però non resiste per la sua smania di libertà che lo porta qua e là senza una meta precisa. Dal 1903 comincia a pubblicare poesie e racconti per diverse riviste. E mentre collabora con un giornale di destra, è capace di polemizzare con sé stesso da uno di sinistra. Attivista del partito anarchico, finisce ripetutamente in prigione per atti vandalici, lui stesso fondatore di uno strano partito, il cosiddetto partito del progresso moderato nei limiti della legge. Dirigerà anche una rivista di zoologia, inventando animali inesistenti efirmando assurdi articoli scientifici col nome di amici. E ancora: si finge pazzo per farsi internare in un manicomio; mette su un canile per cani randagi, creando poi per loro false genealogie; annovera tra i suoi migliori amici un noto ladro e il proprietario di un circo delle pulci; si esibisce in numeri stravaganti nei cabaret frequentati da letterati e artisti cechi e tedeschi. Allo scoppio del Primo conflitto mondiale, arriva a farsi passare per una spia russa. E in tutto questo caleidoscopio di stranezze, scrivendo alla fidanzata, le promette (non si sa con quanta sincerità) di ravvedersi, abbandonando l’alcol e le sue teorie anarchiche… Ma un tipo alla Has?ek può mai adattarsi all’ordinato regime familiare? Infatti quel matrimonio durerà poco. Chiamato alle armi nel 1915, il nostro Jaroslav raggiunge il 91° fanteria a Ceské Budejovice, dove s’imbatte in molte di quelle figure che tratteggerà nel suo (in parte) autobiografico Il buon soldato Sc’vèik. Mandato al fronte in Galizia, si arrende ai russi, finendo poi prigioniero in diversi campi. L’anno seguente si arruola nelle legioni cecoslovacche che combattono al fianco della Russia. Nel 1918, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, altro colpo di scena: Has?ek si iscrive al partito comunista ed entra nelle fila dell’Armata Rossa; venuto pertanto in contrasto con i suoi commilitoni di ritorno in Cecoslovacchia attraverso la Siberia, per qualche tempo deve nascondersi nelle campagne intorno a Samara, fingendosi idiota. Successivamente svolge un’intensa attività di agitatore oltre che di giornalista (a Irkutsk dirige una rivista in tedesco, una in ungherese ed una in burjato-mongolo, e ne progetta una quarta in cinese). Al ritorno in patria, nel 1920, ripiomba nella vita sconclusionata di prima malgrado si sia portato dietro una certa Aleksandra L’vova, presentata agli amici come principessa. Preso di mira da una campagna di stampa denigratoria, viene accusato di bigamia, di propaganda bolscevica, di efferatezze compiute durante la Rivoluzione. Per tirare a campare, ricomincia a collaborare a giornali di destra e di sinistra nello stesso tempo, fornendo versioni fantastiche delle sue esperienze russe. Nel 1921 cominciano ad uscire a fascicoli le avventure del suo eroe d’incrollabile fede asburgica Sc’vèik. È il successo. Per farlo scrivere ancora bisogna stanarlo dalle bettole, strapparlo alla compagnia di altri ubriachi. Gli amici lo convincono a trasferirsi nel villaggio di Lipnice, dove potrà lavorare in tranquillità. Ma anche qui, nonostante le sollecitazioni del nuovo editore e le cure della L’vova, Has?ek continua il suo vagabondaggio di bevitore, scrivendo solo saltuariamente. Ormai distrutto dall’alcol, si spegne ad appena quarant’anni il 3 gennaio 1923. Fino all’ultimo ha dettato brani del libro che, pur incompiuto, ma continuamente ristampato, gli darà fama mondiale. Probabilmente con uno stile di vita così esagerato e provocatorio Has?ek sperava di placare la sua sete di libertà e di autenticità, in reazione all’ambiente stagnante della monarchia austro-ungarica ormai al tramonto, alle ipocrisie borghesi, ai falsi miti che istupidivano le masse. Non aveva la tempra del moralista, del fustigatore di costumi lucido e sistematico, ma avvalendosi del corrosivo acido dell’ironia ha fatto del suo meglio. E col non senso di un’esistenza fuori dagli schemi ci richiama al buon senso di cui sono dotati per lo più gli umili, i non considerati. I quali sanno bene l’arte di sopravvivere in attesa di tempi migliori e più confacenti alla dignità dell’uomo. Dissimulando la tragedia dell’esistenza dietro un inguaribile ottimismo. SC’VÈIK, EROE SCONOSCIUTO Non sappiamo come se la sarebbe cavata l’umile e grottesco eroe Sc’vèik, entrando nel vivo delle operazioni belliche. Infatti, a causa della morte dell’autore, l’epopea di questo bonario allevatore e mercante di cani, strappato alle sue pacifiche occupazioni e mandato a combattere in difesa dell’impero austro-ungarico nella Prima guerra mondiale, s’interrompe (provvidenzialmente?) prima che egli arrivi al fronte Preso nel vortice di avvenimenti che vanno molto oltre le sue capacità di comprensione – si legge nella presentazione all’edizione Feltrinelli del romanzo -, Sc’vèik si destreggia con un misto d’ingenuità e di furbizia, forte di quella sua obbedienza assoluta alla lettera degli ordini ricevuti che porta all’assurdo e dissolve nel ridicolo ogni autorità. Nel buon soldato Sc’vèik i lettori di tutto il mondo hanno riconosciuto un eroe sovranazionale, il campione di un irriducibile pacifismo e antimilitarismo e un simbolo dell’inalienabilità dei diritti dell’individuo contro ogni tutela e usurpazione dittatoriale.

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