Giovani per la strada

Il giovanissimo borseggiatore extracomunitario della stazione Termini e il diciottenne traumatizzato da un incidente mortale… Due vicende drammatiche, come ne capitano tante nelle nostre città, ma nelle quali l’intervento di chi ha saputo “farsi prossimo” dei protagonisti si è rivelato risolutivo. LA MAMMA “ITALIANA ” Roma, stazione Termini. Ero appena scesa dal diretto proveniente da Anagni – dovevo recarmi ad un controllo medico specialistico – quando sono stata travolta e buttata per terra da un tale che stava correndo. Si trattava di un ragazzo di colore, inseguito da tre uomini che gridavano: “È un ladro, fermatelo!”. Qualcuno lo ha bloccato, facendolo cadere. Piombatigli addosso, i tre hanno cominciato a riempirlo di percosse e di calci, fra gli insulti. E nessuno che interveniva. Davanti a uno spettacolo così brutale, mi son sentita spinta a farlo io. La mia situazione di ipertesa grave passava in secondo piano. Aprendomi un varco tra la folla che già cominciava a radunarsi, mi sono precipitata a far da scudo a quel poveretto, difendendolo a borsettate. “Non vi vergognate? – gridavo ai suoi aggressori -. Cosa ha fatto di tanto grave per essere trattato così?”. “Mi ha rubato il portafoglio!” sbraitava il più scalmanato dei tre. Guardai meglio quel ragazzo: poteva avere sedici anni e, spaventatissimo, raggomitolato per terra, cercava di spiegare in un italiano stentato che aveva rubato per sopravvivere: da due giorni infatti non toccava cibo e dormiva sotto i ponti. La stessa versione ha ripetuto poi ai carabinieri, aggiungendo che da circa due anni era fuggito dal suo paese, il Congo, unico sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia per essere riuscito a nascondersi sotto una balla di fieno. Come mai si trovava in Italia? Gli avevano fatto credere che qui il benessere era a portata di mano… Stava male, si lamentava. Andava portato al pronto soccorso, dove ho chiesto di poterlo accompagnare anch’io. Durante il tragitto si stringeva a me, ripetendo: “Tu mi hai salvato la vita, tu sei la mia mamma italiana!”. La diagnosi: trauma cranico e tre costole rotte. Inevitabile il ricovero. Ma era sprovvisto di vestiario adatto. Al che mi sono offerta di andarglielo a comperare io. Al ritorno, mentre lo accudivo, i carabinieri e le suore infermiere che stilavano il referto medico mi hanno chiesto se ero una parente. La mia risposta negativa deve averli sorpresi perché, dopo un momento di silenzio, hanno voluto sapere come mai mi stavo prodigando tanto per uno sconosciuto, per di più ladruncolo. “Mi sono sentita in dovere, in quanto cristiana, di aiutare un fratello più sfortunato”. Ad una delle religiose, suor Teresa, sono venuti gli occhi lucidi; assentendo, ha aggiunto qualche parola di stima e di incoraggiamento. Volevo lasciarle una somma, quella di cui disponevo per la visita specialistica, per le necessità di quel ragazzo, ma sono stata rassicurata: “Lei gli ha già salvato la vita – ha detto la religiosa -, lasci che ora mi prenda cura io di lui”. E al momento di salutarci mi ha dato il suo numero di telefono. Così, con i ringraziamenti anche dei carabinieri, ho lasciato il pronto soccorso. Ormai l’appuntamento era saltato, non restava che riprendere il treno per ritornare a casa. Ma non me ne rammaricavo; mi sembrava di aver “guadagnato”, non perso tempo. La giustizia ha seguito poi il suo corso. Tempo dopo, ho saputo che quel giovane congolese ora lavora come custode presso una comunità religiosa. Suor Teresa ha mantenuto la sua promessa. Anna Maria Anagni L’UNICO MODO DI VOLERGLI BENE Quella sera, al 118 dove svolgo il mio servizio come medico, c’era stata una chiamata in seguito ad un grave incidente stradale. Erano stati coinvolti due giovani. Giunta sul posto, mi sono resa conto che per uno di loro, appena diciassettenne, purtroppo non c’era più nulla da fare. L’altro invece, più anziano di un anno, era fisicamente indenne, ma psicologicamente devastato: era lui infatti alla guida dell’auto. Non riusciva a piangere, soltanto gridava accusandosi di aver ammazzato il suo migliore amico (“come un fratello “, diceva) e ripetendo che voleva morire pure lui, che nessuno poteva capirlo, aiutarlo. Ad un tratto, ha pure fatto a pezzi la sua patente di guida. Come trovare un contatto con lui per lenire quel dolore disperato? Potevo solo raccomandarmi a Dio, sentendomi impotente sia come medico che come persona; e con questa fiducia ho cercato le parole adatte… Niente! Simone continuava, urlando, a scendere nella fossa di disperazione in cui anch’io avevo deciso di seguirlo. Ad un certo punto mi ha presa per le spalle, scuotendomi con forza: “Hai figli tu? Cosa diresti se io ti avessi ammazzato tuo figlio?”. Piangevo io al posto suo: era la mia risposta. Per un attimo ci siamo guardati a fondo negli occhi, un momento molto intenso nel quale l’ho affidato a Maria. Poi il suo sguardo è tornato a perdersi nel vuoto. E qui un pensiero: “Devo aiutarlo a lasciarsi aiutare, a costo anche di apparire senza cuore”. Le parole che infatti gli ho rivolto con fermezza scuotevano anche me: “Ti rendi conto che è un’ora che ci dedichiamo a te? Per Davide ormai non puoi più fare niente, almeno non renderti responsabile di altro! Mentre aspetto che ti calmi, qualcun altro può avere bisogno di me… Per cui hai il dovere di lasciarti aiutare, e subito!”. Chi era attorno, m’accorgevo, rimaneva stupito da questo linguaggio insolitamente duro. Ma era l’unico modo di voler bene a Simone. L’amore non è sdolcinatura. Immobile, teso, lui mi ha guardata fisso. Dopo un urlo liberatorio, in silenzio s’è lasciato condurre sull’autombulanza. Ma lì, durante il tragitto verso l’ospedale, ha ripreso come una cantilena: “L’ho ammazzato io… Lui mi voleva bene ed io l’ho ammazzato, lui si fidava di me ed io l’ho ammazzato… “. Si stava facendo del male di nuovo. Ed io, di rimando, come se qualcun altro me lo suggerisse: “È vero, hai bevuto, andavi ad alta velocità; hai sbagliato. E nessuno, nessuno può toglierti il tuo dolore; ma non l’hai ammazzato tu. Per un errore mi sembra un prezzo troppo alto, deve esserci un perché. Guardati, non hai un graffio! Per il tuo amico era giunto il suo momento… Ci sarà un perché, io però non lo so, e so anche che le parole non servono a niente. Ma Davide lo sa, e sono sicura che vuole che tu ti lasci aiutare”. Simone mi ha ascoltata senza parole, senza una lacrima, chiuso nel suo dolore. Quello stesso dolore che ora, andando via, portavo dentro di me. Sono passati circa due mesi. Una sera ero in servizio, inginocchiata accanto ad una donna colta da malore al luna park. La folla si accalcava intorno, come avviene; ma io non ci facevo caso, concentrata unicamente sulla paziente. Dopo qualche giorno, l’infermiera che aveva prestato il soccorso con me mi ha confidato ciò che le aveva raccontato sua figlia, presente anche lei quella sera al luna park con alcuni amici, tra cui Simone (era la prima volta che usciva dopo l’incidente). Nel vedermi, il giovane si era avvicinato a me e, immobile, non faceva che ripetere: “Quella donna non la scorderò mai, mai…”. Inutilmente gli amici, temendo un crollo psicologico, avevano cercato di allontanarlo. Ed io che non m’ero accorta di nulla! Ora potevo solo concordare col commento di quella infermiera: “A volte noi nemmeno lo sappiamo, ma come passa il bene!”. Gabriella – Firenze

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