Fare il giornalista in Burkina Faso

A Bobo Dioulasso 50 giornalisti e studenti di informazione della regione si confrontano su un giornalismo dialogico che da queste parti pare una realtà molto più che in Occidente

Mi trovo a vivere un’esperienza professionale insolita per un giornalista del mondo occidentale. In effetti sono a Bobo Dioulasso, nel Burkina Faso, per tenere assieme ad alcuni colleghi africani un breve seminario di “giornalismo dialogico” per una cinquantina di giornalisti e studenti dell’informazione provenienti dal Paese che ci ospita, ma anche da Costa d’Avorio, Mali, Niger, Camerun e Bénin. Africa francofona, dunque, per un corso che si volge in francese. Organizzatori: NetOne, associazione tra comunicatori ispirata dai Focolari, Città Nuova italiana, Città Nuova francofona africana.

Alcune note dovrebbero fare riflettere noi professionisti dell’informazione che crediamo di sapere tutto. Innanzitutto c’è gente che è arrivata qui con 48 ore di pullman, spesso dovendo superare ostacoli burocratici non da poco (le frontiere) o logistici (autobus senza aria condizionata, quando le temperature sfiorano i 40 gradi). Quando mai sarebbe possibile pensare per un giornalista europeo di sottoporsi a una tale corvée per una sua formazione?

Il contesto economico nel quale lavorano questi giornalisti – la maggioranza sono giovani – non è dei più facili. I loro racconti parlano di soprusi, mancati pagamenti, appropriazione indebita di articoli da parte di altri che firmano il pezzo rispetto a chi scrive, di stampa problematica dei giornali, di distribuzione spesso precaria, di connessioni internet saltuarie e spesso impossibili per i tagli alla corrente che arrivano quando meno ce lo si aspetta. Insomma, siamo in condizioni di incertezza.

C’è poi una questione legata allo sviluppo delle nazioni africane dopo l’indipendenza dai colonizzatori: in effetti i colonizzatori ci sono ancora, nascosti sotto mille diverse attività, commerciali e militari in particolare. Qui si avverte come un peso enorme la presenza degli ex-coloni, che hanno stravolto, tra l’altro, il sistema tribale locale, creando delle forme di corruzione di enorme influsso sociale. I giornalisti non possono lavorare da queste parti senza avere sullo sfondo sempre questa presenza ingombrante, e che spesso deve essere taciuta per evitare di essere licenziati o emarginati.

Infine, i mezzi a disposizione non sono ancora quelli che abbiamo noi in Europa o nei Paesi economicamente più sviluppati. Pensiamo al benedetto (o piuttosto maledetto) digital divide, per cui l’accesso agli strumenti digitali è ancora molto precario e saltuario. Pensiamo ai mezzi a disposizione dei giornalisti per spostarsi (la motoretta è lo strumento privilegiato), pensiamo al fatto che debbono pagare le proprie spese da soli…

Detto ciò, la piccola folla di giornalisti che ho davanti ha una volontà di riuscita, una determinazione nelle proprie affermazioni, una tale voglia di comunicare la verità che impallidiscono le affermazioni di noi giornalisti che veniamo dal primo mondo. Come per tante altre tendenze mondiali, anche in questo Burkina Faso assolato e bollente si sta dimostrando come ormai la periferia sia il centro, e viceversa. Qui la vita è allo stato nascente, la società è zeppa di cellule staminali pronte a generare, c’è pur nel “caos primordiale” una potenza di vita straordinaria.

E, soprattutto, qui la relazione umana è ancora centrale nella vita della gente, anche dei giornalisti, per cui la proposta di un “giornalismo dialogico”, che cioè sia realizzato da giornalisti che pensano che dialogare sia più efficace socialmente parlando che scontrarsi, pare cadere su un terreno adattissimo, perché qui la relazione è vita, è sorgente di socializzazione e cittadinanza.

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