Giornali e depressione

La lettura dei giornali lascia ormai un senso di insicurezza generalizzato. Serve una rifondazione del giornalismo sulle basi dell'onestà e del rispetto. Della singola penna, dei proprietari, dei lettori. E soprattutto dei politici.
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La mattina, attorno alle 6.30. il mondo è ancora silenzioso, mi sottopongo al rito della lettura dei quotidiani, prima che il turbine della vita redazionale mi assorba completamente. Tale rito è certamente uno dei momenti preferiti nella vita d’un giornalista, soprattutto per il desiderio di apprendere sempre qualcosa di nuovo, di apprezzare gli scoop dei colleghi, di trovare nuove idee senza copiare, ispirandosi a questo o quell’argomento trattato.

 

Ovviamente leggo quotidiani di diversa ispirazione: è più che istruttivo alternare Avvenire a la Repubblica, il Corriere a il Giornale, l’Osservatore romano a il Foglio o a il Fatto. Leggere le stesse notizie scritte da organi di informazione di diversa ispirazione dà una visione meno settaria delle cose, meno di parte. Un esercizio che oggi, qui in Italia, farebbe bene a tutti.

 

Da qualche tempo, però, il rito mattutino non è più un bagno nella professionalità, una ricerca di “verità”. Mi sono accorto che l’atteggiamento che mi guida non è più quello di chi cerca brani di obiettività e veridicità sui fatti e le persone, ma quello di chi cerca a priori di capire dove sta l’imbroglio. Certo, non cessa la ricerca delle penne più blasonate, più indiscutibili, quelle che sai ti diranno qualcosa di serio, di profondo, di insolito. Ma sono ormai poche queste penne.

 

Non è un’accusa che rivolgo ai colleghi, ci mancherebbe. Purtroppo, però, il pregiudizio, l’articolo a tesi, l’intervista velenosa, l’estrapolazione facile ma che il più delle volte tradisce il senso globale d’una intervista, di un documento o di una dichiarazione, sono diventati la norma.

 

Risultato? Un senso di insicurezza generalizzato, quello che spinge o alla ricerca di un “unto del Signore” che ci tolga miracolosamente le castagne dal fuoco oppure al disfattismo generalizzato, che non salva più nulla.. Leggete cronache e commenti sullo scudo fiscale. Scorrete rapidamente le polemiche sul fatto di dover pagare o meno il canone televisivo. Analizzate, se potete, il flob della regolarizzazione delle badanti. E capirete il perché di questi sentimenti di insicurezza.

 

Non si può più, se non con un esercizio di documentazione che richiede il tempo che non c’è, andare al fondo dei problemi, discutere sui contenuti reali d’un provvedimento legislativo invece di discutere sugli articoli che riguardano quella legge, richiamare gli attori della vita politica alla sincerità che dura nel tempo, non a quella del momento che fugge, smentita qualche ora dopo…

 

Bisogna rifondare il giornalismo, certo, ma soprattutto quella politica (e all’economia asservita alla politica) che ormai ha gettato le sue teste di ponte sull’arcipelago dei media, e che comincia a razziare gli organi di informazione e a condizionare gli operatori della comunicazione. Una rifondazione basata sull’onestà e sul rispetto dell’altro.

 

Con quest’atteggiamento ritengo si possa partecipare a testa alta alla manifestazione del 3 ottobre per la libertà d’informazione.

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