Giorgione senza misteri

Ci sono persone per le quali ogni parola suona vuota, cercando di definirle, tanto sono grandi. Ci sono artisti di cui basta pronunciare il nome ed è un’atmosfera che si evoca: nasce la poesia, subitanea e assoluta. Così è Zorzi da Castelfranco, detto Giorgione. Ci si accosta a lui, alle sue (scarse) opere con il tatto e la delicatezza che si usa con gli amici più veri. Anche perché per un gruppo di amici – i collezionisti veneziani Vendramin, Contarini, Ram ” – egli ha dipinto i suoi lavori, più che per committenze ufficiali civili e religiose. Giorgione si svela timidamente. L’approccio (anche i suoi inizi, incerti fra Carpaccio, gli emiliani e le suggestioni di Leonardo più intuite che dichiarate) esige tempo, pazienza da parte nostra. Non si rivela subito, il che spiega, oltre alla morte precoce nel 1510, la leggenda e il mito. Spiega invece, e immediato, il fascino della sua poesia. Lirica e contemplativa: come e più di quella di Giambellino e certo all’opposto della prepotenza di Tiziano. Giorgione non parla e non dice qualcosa :”è”, semplicemente, dentro un’atmosfera. Mai tragica o epica. Sempre intessuta di vibrazioni sentimentali, ispirata da una natura che viene contemplata e trasfigurata con amore infinito. Saranno certo evidenti alcune consonanze nordiche, fiamminghe o leonardesche. Ma Giorgione, pur accogliendole, non le imita: le sublima. Chiunque trascorra per le terre che vanno da Castelfranco ad Asolo e Venezia, può sentire in sé l’esigenza, che la natura intorno gli trasmette, di contemplare; e può dunque ritrovare quest'”aria” – una particolare unione di luce e colore – nelle tele di Zorzi, dove un cromatismo disteso ora a larghe falde ora a miniaturistiche lumeggiature crea un qualcosa che è senza tempo e senza spazio: pur restando nel tempo e nello spazio. Si direbbe che in Giorgione prende forma la poesia dell’eternità. Nella Pala di Castelfranco (1507?), il senso dell’infinito si apre sul balcone alle spalle della Vergine col bambino. Una natura trepidante, assorta come la Madonna in trono sul sarcofago del condottiero Costanzo. Giorgione ama le forre, i prati, le case. Non alza il tono del lamento – che pur la pala commemorativa sottende – perché non conosce la malinconia. Gli basta spalancare la visione idilliaca di un mondo rinato e per noi, come per i riguardanti di allora, scende la pace. I Tre Filosofi (1504?) – Magi o legislatori che siano, poco importa (ormai i simboli ci sfuggono) – stanno “due ritti et uno sentado” dinanzi alla caverna ombrosa, mentre sorge l’aurora. Raramente l’arte ha espresso una tale verginità di sentimento, un’emozione tanto commovente, un così miracoloso dispiegarsi del colore nella varietà dei toni, azzurri gialli rosa violetti. Mai, forse, né prima né dopo, un fenomeno della natura ci è stato “rivelato” nella sua verità originaria dalla pittura. Questa è la natura in cui vorremmo sempre vivere, uomini e cose. Giorgione, con l’intuizione folgorante dei grandi poeti lirici, ha l’occhio limpido di chi vede le cose “come fosse la prima volta”. Di qui la sinfonia cromatica, quel trapassare della luce che crea case e mulini, foreste e rami, uomini e pensieri. Tutti sullo stesso piano, fermi davanti al prodigio dell’aurora. Nella celebre Tempesta (1507?), Giorgione sembra non solo entrare lui stesso “dentro” la natura, ma voler portarvi tutti noi a riguardare la bellezza del fenomeno. Vista di lontano, la tela del “soldato cum la cingana ” (che zingara poi non è) pare aprirsi su di un teatro, con gli alberi a far da quinta, mentre la scena sale dalla donna allattante e dal giovane al ponte per chiudersi nel temporale estivo e nel lampo abbagliante, che rende irreali uomini e cose. Per un attimo, il tempo si ferma. Giorgione fissa, con una fantasia visionaria, la voce della natura e la voce dell’uomo: nessun contrasto, anzi, la calma tranquillità dello scorrere dell’esistenza. È questa sicurezza, pur nella tempesta, che fa sorgere il sorriso a fior di labbra del giovane. Un riso leggiadro, fratello di quello della Gioconda e – in arte i secoli sono spesso un baleno – dei Kouroi greci e di Fidia. Perché questo è l’uomo, tutto intero, pienamente appagato: una cosa sola con l’intera creazione. È questa armonia allora che ci incanta, mentre le pennellate di Giorgione vivificano brillii e trasparenze dell’acqua, bagliori dei nembi, il panno candido della donna e il giubbetto carminio del giovane. Non sono solo colori e luci, sono sentimenti, emozioni che passano per questa tela. E affascinano. Anche quando lo sguardo del pittore, con gli anni, si concentra di più sulla figura umana La Laura di Vienna (1506) – sposa o cortigiana che sia – è il ritratto di una femminilità serena, bella nella sua floridezza e nell’occhio chiaro. Costruita sul colore e con il colore, non ha turbamenti nè la sensualità accesa delle donne tizianesche. Sta di fronte a noi con la sua giovinezza in fiore, come la Vecchia (1510) mostra apertamente il suo sfiorire, ma senza nulla di tragico. Perché per Giorgione la vita commenta semplicemente sé stessa, con assoluta naturalezza. Ne è una prova ulteriore il Cristo portacroce. Per quanto consunto dal tempo, riesce difficile dimenticare quello sguardo che ci fissa, ci interroga e sembra chiederci qualcosa. Dimentico degli sgherri intorno, il Cristo, più che “uomo dei dolori”- com’era nell’iconografia usuale – spira una dolcezza ed una tenerezza senza pari. Non si può non amare quel volto, che lo strato sottilissimo del colore ravviva di lampi rossi, accendendone la carica emotiva. È una umanità dolente e rassicurante insieme che ci pervade, con una finezza psicologica, una intensità poetica che ancora suscita stupore. È forse proprio lo stupore, il sentimento più autentico di Giorgione. Come di chi, cosciente del mistero che è la vita, non si stanca di contemplarla e di farcela contemplare. Per questo, ogni soggiorno davanti alle sue opere non può essere distratto o veloce, né occorre fermarsi troppo ai simboli e ai temi. Giorgione è più grande. È un amico che parla ad amici di sé, del suo mondo. Mostra, con straordinaria modernità, un desiderio immenso di dire quello che ogni artista vuole resti di lui: l’anima. A NON PERDERE. Solo nove delle circa 25 opere dell’attuale (ristretto) catalogo giorgionesco in mostra, ma capolavori. Tempesta e Filosofi, la Vecchia e Laura, Pala di Castelfranco e Cristo portacroce, due frammenti del Fondaco dei Tedeschi (Nuda e Amorino) e il disegno da Rotterdam con la Veduta di Montagnana. Poste alla fine del percorso espositivo delle Gallerie, ne sono il fulcro e utile termine di confronto con l’arte veneziana anteriore e posteriore, oltre che occasione per una indagine più serena di un artista su cui, da Vasari in poi, si è fatta molta confusione. I restauri recenti – anche quelli di Casa Pellizzari a Castelfranco, ora visitabili – hanno rivelato un Giorgione disegnatore (sotto la Tempesta) e dalla tecnica tradizionale, ma innovatore nell’uso del colore.

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