Giordani, la piazza e i mostri

Gino impasta i colori con elementi naturali come il caffè e l’uovo. Su un muro di tufo il suo stendardo mostra un volto di uomo sereno come fondamento del paese arroccato sul monte. L’inaugurazione di una piazza vuol dire anche questo segno esteriore di festa nel rione Croci di Bomarzo. La banda, i tavoli imbanditi per la festa, sono elementi di una semplicità che sa fare ironia delle formalità senza perdere solennità. Igino Giordani non è riducibile ai numerosi titoli posseduti, è prima di tutto figlio del popolo e questo borgo, che ha trovato un luogo che porterà il suo nome, rimanda idealmente alla sua infanzia di garzone con il padre muratore; a quel lavoro manuale in cui riconosceva un lato etico e uno eroico; alla fatica comune come il lavar cenci della madre sul fiume al ritmo del canto delle donne. Prima rappresentazione della vita e musica interiore che lo accompagnerà per tutta la vita. La piazza e la strada come luogo di prossimità e di fraternità. Da giovane Igino conosce altri luoghi di adunanza, resi orribili dalla richiesta urlata di guerra e di sangue. Il senso di appartenenza a quella nazione fatta di contadini e operai destinati al macello del primo conflitto mondiale, lo induce ad una decisa ribellione. Anche lui va in piazza per gridare contro la propaganda bellicista e così vive la contraddizione che accompagna noi tutti quando,coscritto,viene spedito a Modena. Qui, nella scuola di duci e guerrieri dove si soleva far credere, per forza, nella santità dell’omicidio , comprende meglio il Vangelo e il grido di Benedetto XV sulla guerra come inutile strage. Sul fronte viene comandato ad una azione rischiosa e inutile che porta alla morte quasi tutto il plotone. Il tenente Giordani perde quasi una gamba, ma gli rimane addosso il sangue del suo attendente che muore per salvarlo. E lo fece con amore, ricorda. Nessuna regola di moderazione potrà mai cancellare quest’impronta. Nel primo dopoguerra riconosce subito la natura pagana del regime che avanza con i suoi riti simbolici che reclamano ed esigono l’occupazione dei luoghi della comunità. Ogni piazza di paese subirà questa violenza e stravolgimento. Percorrendo a piedi la rocca antica di Bomarzo, ci viene in mente l’ambiente dove Giordani situa le vicende de La città murata, romanzo storico dove mostra, recuperando anche antiche tracce del culto al dio serpente, il volto demoniaco del potere e la sua storia gremita di crimini. Ma l’autore narra, in quel medesimo contesto, l’avvenimento di un’altra storia, quella di due giovani innamorati protagonisti del realismo del discorso della Montagna. L’accusa ripetuta di ingenuità rivolta a Giordani ha sempre cercato di tacitare il carattere destabilizzante della sua politica. La possibilità dell’avverarsi di un’altra storia. Le sue iniziative volte al disarmo, proposte in piena guerra fredda, suscitavano imbarazzo. Bomarzo è conosciuto per la villa dei mostri, che non è un parco giochi, ma l’opera voluta da un nobile del Cinquecento che, tornato dalle battaglie delle Fiandre e disgustato dagli intrighi di palazzo, si ritirò in questa campagna per creare, seguendo la filosofia epicurea, un luogo incantato, un rifugio per il piacere, nell’intenzione di far scordare la guerra e ogni dolore. Un percorso iniziatico e misterico, dunque, che cerca di elaborare e rimuovere il male. Giordani si incammina per un altro sentiero, quello che affronta la solitudine e la disperazione e, attraverso la notte, giungere a dire: Il movente del combattimento sia l’amore, non l’odio per l’uomo, il fratello. Una strada aperta a tutti, senza separazione di casta, questa tentazione, ricorrente e subdola in ogni struttura. Quell’uomo raffigurato sullo stendardo ha attraversato il secolo dell’odio e ha visto i suoi mostri orrendi, ma quegli occhi da ragazzo testimoniano il riaccadere del cristianesimo come freschezza mattinale che apre la via ad una beatitudine di popolo. Che valore può avere il fatto che la piccola comunità di Bomarzo con il suo sindaco, i rappresentanti dei comuni limitrofi e fraterni, un giorno di giugno delimitano uno spazio e gli danno un nome? Cosa conta di fronteal caos e a tutti i problemi spalancati dal millennio? Forse sono l’espressione di quella democrazia comunitaria che sa partire da ciò che può apparire banale, dal recuperare luoghi di incontro come il cortile di una casa comune. Parlando con gli amministratori del paese, si conoscono le iniziative della compagnia teatrale comunale, l’orgoglio di aver ristrutturato con mattonato originale la frazione vicina. Traccia di una attenzione semplice e concreta al bene comune. La mitezza del luogo e dei suoi abitanti è in continuità, in quelle stesse ore, con quei sindaci e parlamentari dell’America Latina che, nel cuore delle contraddizioni della politica internazionale, si sono ritrovati assieme a Rosario, per ricostruire il tessuto sociale partendo dalla fraternità. Lo dicono senza pudore e paura, riconoscendo come fondatore quel Giordani che, nel 51, poteva affermare con estrema lucidità: Si fa la guerra perché si ha paura. Ci vuole coraggio, un coraggio razionale, a sostenere la pace. Questo aveva in cuore Franco Perniconi quando ha proposto l’intitolazione della piazzetta. Con Domenico Mangano e altri amici si sono chiesti, da sempre, il senso e la vocazione di una città. Bella gente a Viterbo. Gran bella terra.

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