Gerardo dei “rammagisti”

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Fino ad un certo punto la storia di Gerardo si identifica con quella di tanti altri ragazzi che, alle prese con i problemi della sopravvivenza e in un ambiente che sembra non offrire sbocchi, subiscono un disagio sociale che è poi il maggior incentivo all’emarginazione, alla violenza, alla delinquenza. Per fortuna non è stato il suo caso, anche se le premesse c’erano. Un elemento imprevisto s’è innestato infatti nella sua piccola storia personale, facendole decisamente cambiare rotta. Sono nato a Lettere, un piccolo paese del napoletano sui Monti Lattari. Mio padre faceva il muratore e mia madre era casalinga. Con loro, totalmente assorbiti dall’assillo di portare avanti la famiglia (eravamo otto figli), il dialogo era abbastanza raro, e quando avveniva riguardava più che altro la problematica economica. Da ragazzo sognavo una carriera calcistica, e non mancarono le opportunità per intraprenderla. Ma non se ne fece nulla: anche perché l’impatto col mondo sportivo reale, così diverso da quello da me idealizzato, non fu dei più felici. Tanti attorno a me cercavano la felicità nei soldi, nel piacere, nel consumismo, per poi ritrovarsi con le mani vuote e lo sguardo spento. Egoismo, arrivismo, invidia se non odio inquinavano i rapporti umani nel mio piccolo mondo scolastico e provinciale” No, una vita così io la rifiutavo. Per reazione, misi su una banda con alcuni coetanei (i “rammagisti” la chiamammo: ovvero, in dialetto locale, “quelli che provocano danni”), specializzata in atti vandalici e di disturbo: mi illudevo, dandomi arie da prepotente, di riempire il vuoto di un’esistenza in cui Dio non aveva posto, semplicemente perché lo conoscevo. Una sera, mentre sedevo triste e sfiduciato su una panchina, fui distolto dai miei pensieri dall’arrivo di un giovane religioso che conoscevo di vista. Non mi andava di parlare, e infastidito dalle sue domande incominciai a prenderlo in giro, sperando di scoraggiarlo. L’altro però continuò ad ascoltarmi con calma, senza raccogliere la provocazione. Per la prima volta mi sentii considerato, voluto bene. Fu lui, tra l’altro, a propormi di prender parte ad una grande manifestazione giovanile a Roma: era il Genfest del ’75. Ci andai solo percuriosità, ma l’impatto fu scioccante: erano giovani come tutti, ma a differenza degli altri, di me, sembravano felici, realizzati: lo si capiva dai canti e dalle testimonianze. E questa gioia era in relazione con Gesù, con le sue parole riguardanti l’amore. Amare” Se ci erano riusciti loro, perché non io? Tornai a casa entusiasta e deciso ad imitarli. Solo che, per inesperienza, in classe cominciai a “catechizzare” i miei compagni e addirittura, alle resistenze opposte da uno dei più recalcitranti, reagii” picchiandolo. Dopo questo fallimento capii che per convincere gli altri ad amare dovevo prima voler bene concretamente io, e poi “parlare”. Mi ci misi d’impegno: per esempio, aiutando gli ultimi della classe negli studi e portandoli alla promozione. Alcuni compagni, notato il mio atteggiamento, vollero saperne di più su quell'”arte di amare” che mi stava cambiando la vita. Stavolta fui ascoltato e dovetti risultare più convincente. Qualcuno volle provare con me: al punto che, con altri giovani della zona, arrivammo a formare un gruppo di 120, impegnati a vivere il vangelo. Con gli spunti forniti dalle testimonianze e dai commenti alla Parola di vita, la rivista Città nuova risultò un prezioso strumento per tenerci collegati, per “formarci” e incoraggiarci. Ma anche in famiglia le cose andavano meglio: invece di farmi servire, ero io, adesso, che tenevo in ordine la mia stanza, aiutavo nelle faccende domestiche e in campagna (avevamo un po’ di vigna e qualche olivo); puntavo inoltre ad essere più presente ai pasti in comune per cercare un dialogo con mio padre. E le conferme che in vangelo era vero si moltiplicavano” Un giorno, mentre camminavo per i vicoli di Napoli, venni avvicinato da tre ragazzi, forse drogati: pistola in pugno, pretendevano che vuotassi le tasche. Siccome l’unica cosa di valore che avevo era l’orologio, senza scompormi risposi che preferivo “regalarglielo”. Stupiti, mi ringraziarono e alla fine ci stringemmo la mano come tra amici. Ma non era finita: appena a casa, sulla mia scrivania trovai un pacchetto: conteneva un orologio della stessa marca di quello che aveva appena preso il volo. Un’altra volta avevamo organizzato una raccolta di stracci e carta per contribuire alla costruzione di un ospedale in Camerun. Ci eravamo impegnati per un milione di vecchie lire, ma il ricavato era soltanto di 800 mila lire. Che fare? Entrati in una chiesa, con fede chiedemmo a Gesù le altre 200. Intanto era arrivato il camion per caricare il frutto delle nostre fatiche e l’autista, rimasto ammirato dalla finalità della raccolta, volle contribuire anche lui: “Io su questa roba guadagno 200 mila lire: ve le regalo”. In occasione di un altro campo di lavoro, mi trovai nel dilemma se partecipare anch’io oppure aiutare mio padre a vendemmiare. Pur consapevole di questa sua necessità, mi sembrò giusto dare quel mio contributo al Terzo mondo. Papà se la prese e minacciò: “Se vai via è meglio per te non tornare più”. Con questo dolore nel cuore mi affidai a Gesù: “Io faccio la tua volontà, ma trova tu il modo di risolvere il problema di papà”. A sera lui, tutto contento, mi accolse con un bacio: “Sai, appena sei andato via tu – soggiunse – sono venuti ad aiutarmi tre tuoi fratelli e in più tuo cognato e uno zio con l’Apecar, così abbiamo finito prima del previsto”. Da questi ed altri simili episodi, costatavo un passaggio “dalla morte alla vita”, coglievo l’amore di Dio per me. Prima di scoprire il vangelo come codice dell’esistenza, pensavo che chi segue Gesù dovesse fare molte rinunce: ora so che l’unica cosa a cui occorre rinunciare è il proprio egoismo. Tutto il resto è guadagno. Da quegli anni giovanili ne è passato di tempo. Gerardo ora insegna religione in alcune classi dell’area vesuviana con alunni spesso “a rischio”. Può stupire una scelta del genere in uno che ha fatto studi scientifici e la cui aspirazione era diventare medico. Ma dopo quel cambiamento di rotta, sempre più si è evidenziata in lui l’esigenza di approfondire, mediante studi teologici, quel Dio che gli ha cambiato la vita. “Per me – spiega – insegnare religione è una missione che nasce dal dovere di comunicare il dono ricevuto. Non è facile: in genere i miei alunni, dato il contesto sociale da cui provengono, la situazione di povertà e anche la mancanza forse di modelli a cui riferirsi, sono tabula rasa per quel che riguarda la religione. La chiesa con i suoi precetti è da loro sentita come una realtà distante, superata. Si tratta allora, anzitutto, di farseli amici, di entrare nei loro interessi” In tutti c’è sempre del positivo da evidenziare; e allora, facendo leva su quello, è più facile che si aprano ed accolgano il messaggio cristiano”. Detto da un ex “rammagista”, c’è da crederci.

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