Formarsi all’Europa

Mario Monti oggi incontra la Merkel e Sarkozy per mettere a punto nuove strategie per fronteggiare la crisi. Riportiamo la prefazione del libro di Città Nuova "Formare l'uomo europeo", scritta da lui, dove ritroviamo linee del suo pensiero sul ruolo dell'istruzione
Mario Monti

Nel 2005  Mario Monti – emerito preside dell’Università Bocconi -, era stato già membro della Commissione europea e conosceva bene la serie di nuove sfide e possibilità a cui  il nuovo organismo europeo apriva. Anticipatrice di alcuni tratti della suo pensiero, pur a distanza di alcuni anni, risulta allora questa prefazione che scrisse per il libro di Città Nuova di Vincenzo Zani "Formare l’uomo europeo" e che riproponiamo in versione integrale.

 

«Il compito dell’educazione, agli inizi di questo terzo millennio, viene sollecitato da nuove, difficili sfide. I cambiamenti profondi e rapidissimi che stanno sviluppandosi sul terreno della conoscenza, della tecnologia, dell’economia, della società, hanno messo in discussione le modalità consolidate dei sistemi formativi, imponendo la necessità di ripensare le finalità fondamentali dell’istruzione scolastica, non semplicemente per rivedere e aggiornare i propri curricula disciplinari, ma per riprecisarne il senso complessivo. Due, in particolare, appaiono le ragioni che hanno provocato la crisi delle tradizionali imposta-zioni: il fenomeno della cosiddetta globalizzazione, nei suoi diversi aspetti (economico, sociale, culturale) e quello dell’esplosione dell’innovazione tecnologica, specie nei suoi risvolti di progressiva artificializzazione dell’esperienza umana.

All’educazione scolastica è sempre stato affidato il compito di introdurre i giovani alla realtà adulta, attraverso la consegna del patrimonio culturale caratterizzante la propria comunità di appartenenza e la formazione di quelle competenze ritenute indi-spensabili per inserirsi in ma-niera appropriata nella vita lavorativa.
Oggi un simile rapporto, semplice e lineare, tra scuola e inserimento economico e sociale non esiste più. La rapidità con la quale mutano le richieste economiche è tale che la formazione garantita dai sistemi scolastici non riesce a reggere il passo: non solo le conoscenze invecchiano rapidamente, ma anche le abilità di tipo specialistico sono destinate a una breve durata, perché i processi lavorativi mutano, le tecnologie si modificano di continuo e im-pongono nuove modalità, altre esigenze si impongono. Inoltre i nuovi saperi richiesti se si sommano alla quantità di conoscenze già presenti nei programmi scolastici, finiscono per appesantire il carico contenutistico penalizzando la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento.

La rigorosa ripartizione delle discipline non regge più, le frontiere della conoscenza sono molto più fluide, i saperi si sovrappongono, l’ibridazione disciplinare si fa sempre più necessaria e frequente. Anche l’altra fondamentale missione della formazione dei giovani; quella della consegna del patrimo-nio culturale sul quale si fondano le identità nazionali e locali, viene messa in discussione da una realtà che è diventata molto più plurale, nella quale si intrecciano le etnie, le appartenenze, i valori di riferimento. È evidente che la soluzione non può essere quella di trascurare le diversità, perseguendo una formazione priva di riferimenti localizzati, ma è inevitabile riflettere su che cosa sia oggi l’educazione alla cittadinanza, quali siano i suoi con-fini, quali relazioni vadano individuate tra le molteplici appartenenze di chi è allo stesso tempo, cittadino del suo paese e della sua re-gione, ma anche cittadino europeo e cittadino del mondo. La consapevolezza della propria identità culturale e il dialogo tra le diverse culture appaiono compiti più com-plessi di un tempo, ma ancora più indispensabili.

Rispetto al nuovo quadro di riferimento la comunità internazionale va da tempo individuando nuove linee-guida.
La più importante, e in un certo senso riassuntiva di una molteplicità di nuove indicazioni, è probabilmente espressa dallo slogan “imparare ad apprendere”. In una società dove tutto sempre è in cambiamento e la precarietà sembra essere l’aspetto, per così dire, più “stabile”, non si apprende una volta per sempre quello che serve, ma bisogna continuamente essere disposti a e capaci di apprendere nuovamente. Si capisce come il compito dei sistemi formativi istituzionali non sia più sufficiente, sia perché altre fonti informative e formative si affermano parallelamente, dando vita a una rete educativa più estesa; sia perché il ciclo dell’apprendimento diventa molto più ampio di quello definito dalla lunghezza del percorso di scolarizzazione, e tende a coincidere con l’intera vita della persona.

La competenza nell’apprendimento diventa così la competenza strategica, quella che deve essere perseguita prioritariamente, e alla quale anche la formazione formale deve guardare e alla luce della quale rivedere contenuti, metodi, architettura stessa dei sistemi scolastici.
«L’orientamento all’apprendimento prende maggiore consistenza, in Europa, a partire dalla metà degli anni Novanta, e – come si può notare nel presente approfondito e aggiornato studio di monsignor Zani – sono numerosi i documenti e rapporti internazio-nali che indirizzano la riflessione pe-dagogica, le scelte politiche e, perciò, anche le riforme scolastiche in questa direzione.
Investire in educazione diventa elemento strategico delle politiche comunitarie, che, con il documento di Lisbona (2000), definiscono una serie di obiettivi molto ambiziosi per il pros-simo decennio, accettando la sfida di portare l’UE a essere l’economia della conoscenza più qualificata e competitiva. E l’impegno in questa direzione deve riguardare i sistemi di istruzione, di formazione professionale, ma anche di formazione continua.

Condividendo la sfida dell’apprendimento, ci si deve però chiedere di che tipo di apprendimento si tratti. La risposta non è scontata e le implicazioni che se ne traggono sono molto diverse tra loro.
La chiave interpretativa che sembra più utilizzata è quella che vede l’apprendimento funzionale alle esigenze dell’economia, che con le sue richieste spinge a rivedere i contenuti dell’insegnamento e la sua organizzazione. Ci sono buone ragioni che consigliano di mante-nere in stretto rapporto il percorso dell’istruzione e della formazione con le richieste del mondo produttivo. Ma la ragionevolezza non deve impedire di cogliere anche il limite di una posizione che rischia di appiattire tutto sull’unico criterio che gode di legittimità, quello dell’utile. La scuola, e più in generale la formazione, sono strategiche quando sono utili, e sono utili quando servono alle richieste dell’economia.

Accanto a questa interpretazione riduttiva se ne pone, però, anche una meno semplificatrice, più a-perta ad integrare nell’idea di ap-prendimento anche altri significati, più legati alle dimensioni psicologiche, sociali e culturali dell’esperienza del soggetto in apprendimento, e che meglio sembrano rispondere alle sfide del cambiamento.

Già il Rapporto Faure (1972) aveva sinteticamente anticipato questi nuovi significati, quando afferma-va che all’educazione spetta di insegnare ad «apprendere ad essere”. Alla visione funzionalista dell’educazione conviene sostituirne una antropologicamente molto più ricca, aperta alle dimensioni della costruzione della propria i-dentità all’interno di un mondo plurale, nel quale è necessario imparare anche a convivere e ad assumere la responsabilità sociale, etica, politica del suo miglioramento. L’orizzonte verso il quale indirizzare lo sforzo delle istituzioni come dei singoli impegnati nel compito educativo deve allargarsi ad abbracciare le dimensioni del bello, del vero, del giusto e del buono, non solo quelle dell’utile e del conveniente.

L’autore di Formare l’uomo europeo mette in chiaro che nella massa delle informazioni, che ci im-prigionano nella nuova società della conoscenza è indispensabile possedere non soltanto la competenza per elaborarle, ma il criterio per valutarle. Tanto più in situa-zioni del tutto inedite e preoccupanti come, ad esempio, quelle che si verificano nel campo dell’artificializzazione dell’esperienza umana.
C’è bisogno di una educazione dell’intelligenza, ma in un quadro di promozione armonica ed integrale di tutte le dimensioni della persona. C’è bisogno di un nuovo umanesimo, non estraneo alla scienza e alla tecnologia ma capace di integrarle in una più ricca sintesi.

A delineare il profilo di questo nuovo umanesimo concorre la riflessione europea e internazionale, e molti sono i soggetti che portano un contributo importante.
Tra questi soggetti un ruolo di primo piano viene svolto dalla Chiesa cattolica che, attraverso la riflessione pedagogica di molti studiosi che si ispirano alla sua dottrina, i documenti ufficiali e gli insegnamenti del più recente pontificato, sta contribuendo alla deli-neazione del nuovo orizzonte educativo, sottolineando valori che possono essere riconosciuti anche da quanti non vi si riferiscono in termini di adesione e di fede.

L’opera di monsignor Zani mette in luce, con grande efficacia, il ricco apporto al dibattito interna-zionale che proviene dalla rifles-sione che in campo cattolico si viene facendo ed evidenzia forti punti di convergenza nella deline-azione dei compiti che l’educazione è chiamata a svolgere. In particolare appare chiara la scelta di contrastare una eccessiva  pressione delle logiche economicistiche e di percorrere la strada di un nuovo umanesimo, nella quale è centrale il valore della persona e del suo pieno sviluppo, del dialogo tra le culture, della cittadinanza attiva e consapevole, in una visione che privilegia la dimensione della comunità rispetto a quella dell’individualismo, della cooperazione rispetto alla pura competizione, della integrazione piuttosto che della frammentazione specialistica.  Questo libro rappresenta un documentato rapporto sull’attuale dibattito, quale si va svolgendo specie in Europa, e offre un importante e
originale contributo al suo sviluppo».

 

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