Firenze, La Pira e la guerra che viene

Draghi è intervenuto all’evento "Mediterraneo frontiera di pace" alla vigilia dello scatenamento di una guerra in Europa. Le domande davanti ad un conflitto che ci chiama in causa. L’incubo nucleare e la lezione di La Pira.
Guerra, Foto Ap

Mario Draghi è intervenuto a Firenze nel pomeriggio di mercoledì 23 febbraio all’apertura dell’evento “Mediterraneo frontiera di pace” con la consapevolezza dell’aggravarsi della situazione sull’altra frontiera, quella orientale, tra Ucraina e Russia. Nella notte, ore 4 in Italia, Putin ha annunciato l’attacco bellico in Ucraina, da lui definito «un’operazione militare speciale per proteggere il Donbass».

Il presidente del Consiglio italiano si è, quindi, trovato a parlare della costruzione della pace nell’imminenza dello scatenarsi degli eventi che obbligano il nostro Paese a compiere delle scelte ben precise. Parlando ai vescovi delle diverse sponde del Mediterraneo, Draghi ha detto che «gli eventi in Ucraina ci portano a ribadire che le prevaricazioni e i soprusi non devono essere tollerati» auspicando che il messaggio di pace di Firenze possa «diventare anche il nostro e risuonare forte laddove si cerca lo scontro e si rischia la guerra».

Mattarella ha convocato il Consiglio supremo di difesa mentre i vescovi del Mediterraneo, che «conoscono bene questo flagello», hanno lanciato l’appello a «fermare la follia della guerra!».

Fino alla fine è stata auspicata una possibile azione di mediazione estrema da parte dell’Italia, come ad esempio auspicato da Romano Prodi, secondo il quale Draghi poteva avere «un ruolo più importante di Scholz o Macron» in questo momento storico dei rapporti tra Ue e Russia. Ovviamente, secondo l’ex presidente dalla Commissione europea,  «noi siamo nella Nato e dobbiamo essere nella Nato, ma l’Alleanza non è il Patto di Varsavia, abbiamo il dovere di essere nell’Alleanza con un ruolo attivo perché ci sono interessi dei singoli Paesi. Se avessimo un esercito europeo non avremmo assistito alla follia del ritiro Usa dall’Afghanistan senza nemmeno essere avvertiti».

È assai arduo oggi poter immaginare un “ruolo attivo” all’interno della Nato davanti ad eventi che inducono ad un forte richiamo alle armi. Non ci sono, nel caso dell’Ucraina, gli estremi per invocare l’applicazione dell’articolo 5 del trattato Nord Atlantico che prevede la possibilità del ricorso all’intervento armato dei Paesi dell’Alleanza in caso di attacco ad uno dei suoi membri. Ma la Polonia, che fa invece fa parte della Nato e avverte il pericolo di un’estensione del conflitto, ha chiesto l’applicazione dell’articolo 4 del Trattato, che prevede la «consultazione tra le parti ogni volta che, nell’opinione di una di esse, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata».

Alla fine della riunione del Consiglio atlantico, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha dichiarato che «non ci sono truppe Nato in Ucraina al momento, non abbiamo né piani né intenzioni di dispiegare le truppe Nato in Ucraina, ma stiamo incrementando truppe nella parte orientale dell’Alleanza in territorio Nato». E ancora che «nel corso della riunione del Consiglio Atlantico è stata approvato un ulteriore dispiegamento di forze di terra, acqua e aria sul fianco sinistro dell’Alleanza. È stata anche aumentata la prontezza di risposta dei contingenti».

Bisogna infatti aver presente che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’espansione della Nato verso est ha portato ad una forte militarizzazione dei confini. Non sono scomparsi i carri armati, ma semmai moltiplicati assieme alla proliferazione di basi militari  e piattaforme missilistiche. Dopo lo smarrimento postsovietico, la Russia di Putin coltiva la riconquista di un ruolo non subalterno nel quadro geopolitico internazionale. Mosca e Washington, tra l’altro, sono tuttora i maggiori detentori di arsenali nucleari, perennemente tentati da un loro uso all’avvicinarsi dello scontro diretto. Armi micidiali in possesso di almento altri 8 Paesi e quindi sempre più fuori controllo nel loro possibile uso, come ripete in continuazione la Federazione degli scienziati americani.

E, così, proprio nei giorni di Firenze dedicati alla visione profetica di Giorgio La Pira, cade il velo davanti allo scenario apocalittico della storia da lui invocato realisticamente più volte come invito alla conversione radicale per non consegnare le città della terra e i suoi abitati all’autodistruzione.

È poi paradossale il fatto, come ha messo in evidenza papa Francesco, che siano popolazioni di formazione cristiana a confrontarsi ancora una volta usando le armi fino agli esiti più incontrollabili in nome della guerra giusta. Da entrambe le parti si invocano le ragioni dell’inevitabilità dello scontro a partire dall’esempio storico che giustifica ogni conflitto e cioè la guerra contro il nazismo invocata nell’ora più buia del secolo scorso. Da parte occidentale si definisce il revanscismo di Putin come la follia espansionista di stampo hitleriano, mentre il presidente russo dichiara di voler denazificare l’Ucraina sostenuta dagli Usa.

A chi si dichiara contro la guerra è probabilmente permesso di unirsi alla preghiera e al digiuno proposti per il 2 marzo da Francesco come «armi di Dio» davanti «all’insensatezza diabolica della violenza», ma, nello scontro ormai avviato, è considerato velleitario ed equivoco cercare strade possibili per fermare la strage annunciata senza che questo comporti un cedimento verso i violenti o, peggio, l’indifferenza verso le vittime.

Si è molto discusso in questi giorni sulla presenza del presidente di Med Or di Leonardo nel comitato scientifico promosso dal sindaco Nardella per l’evento di Firenze legato a La Pira. Marco Tarquinio su Avvenire ha detto che tutti, «anche coloro che la pace non l’hanno fatta», possono parlare di pace «purché ogni parola di pace si specchi, poi, in azioni e fatti coerenti».

Si può prendere spunto da questo invito per affrontare immediatamente quindi il confronto con le posizioni espresse da Minniti su Repubblica del 23 febbraio, dove invita a riconoscere «dall’Ucraina al Mediterraneo, dalla Siria alla Libia, dal Centrafrica al Sahel, (la realtà di) una sfida senza precedenti dalla fine della guerra fredda che va affrontata con fermezza e determinazione dalle grandi democrazie occidentali. Non hanno giovato in queste settimane esitazione e distinguo. Si è trasmesso il senso di una fragilità e di una debolezza in una partita in cui i rapporti di forza sono decisivi per gli stessi esiti negoziali».

La determinazione e la fermezza occidentale possono portare alle sanzioni economiche come allo schieramento ulteriore di truppe e mezzi militari pronti ad intervenire.

Le decisioni dei vertici Nato saranno oggetto di un confronto parlamentare dall’esito scontato. Ma nella società è presente un movimento per la pace che chiede, come fa Rete pace e disarmo, di non continuare ad umiliare «l’ONU, messa ai margini dall’insensata espansione dei patti militari e dalle violazioni del diritto internazionale figlie del ricorso alla guerra per la risoluzione delle controversie internazionali», perché «diventi l’attore principale della Comunità internazionale in un mondo sempre più multilaterale».

 

 

 

 

 

 

 

 

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