Firenze ferita

I morti senegalesi di piazza Dalmazia non schiacciano la città. Tra speranza e reazione serve capire le cause.
Piazza d'Almazia

I fiori hanno messo radici anche sul sangue. Sono avidi di terra e non si chiedono chi prima di loro l’abbia vissuta o chi lì vi sia addirittura morto. A piazza Dalmazia continua la silenziosa processione di cittadini, studenti, migranti che continuano a portare rose e margherite sulla tomba di Diop Mor e Samb Modou, mentre qualche stelo si erge naturalmente. «Uccisi da mano fascista e razzista», recita la lapide bianca dedicata ai due senegalesi.

 

Il 13 dicembre qui c’erano i loro banchetti di occhiali, con qualche borsa e dei foulard. Giornata tranquilla. Salutano come sempre Anna e continuano a offrirle – come ogni giorno – degli occhiali da sole alla moda, anche se lei, a 76 anni, di quell’accessorio non ha proprio bisogno. È ormai un rito giocoso, che va avanti da anni: è la scusa per scambiarsi qualche parola. Poi, alle 12.30, la tragedia: Gianluca Casseri, un pistoiese impregnato di cultura xenofoba, mira ai due senegalesi e li uccide. Nella folle fuga si imbatte in Cheik, anche lui senegalese, anche lui ambulante, salvato dalle pallottole solo perché un edicolante fiorentino gli ha fatto scudo con il corpo. Negli occhi di questo giovane si mescolano ancora terrore e incredulità: lui è vivo, è scampato all’orrore. Non riesce ancora a parlarne.

 

Un mese dopo

 

Sono trascorsi trenta giorni da quella mattina d’inferno. Sulle pietre dell’assassinio un lenzuolo bianco comincia a riempirsi delle firme di passanti, clienti e ambulanti. Arrivano anche le classi di una scuola elementare insieme ai maestri. Non è turismo della tragedia, «è una pagina dolorosa della storia di Firenze che deve appartenergli», spiegano.

La ferita nella città è viva, ma nessuno vuole arrendersi a un gesto ritenuto estraneo alla cultura di questa gente e di questo quartiere. Si avvicinano Maudu, manovale di 39 anni, e Cher Elhadji, che vende libri di un’editrice messa su da giovani africani. Il ricavato andrà alle famiglie di Mor e Modou, visitate proprio in quei giorni dal vescovo di Pistoia, quasi a riparare il gesto folle del concittadino. Ha offerto degli aiuti economici e un sussidio per lo studio dei figli.

 

Intanto il comitato di quartiere, sorto spontaneamente qualche giorno dopo l’eccidio, vede ingrossare le sue fila. Promotore è Alessandro Camicioffoli: «Non potevo restare a guardare, volevo fare qualcosa. Qui si è consumata una tragedia umana e non un atto di razzismo – spiega –. Ora siamo in 50 e ogni mese faremo un presidio. Questa piazza non è una tomba, ma un luogo di vita, e qui bisogna trascendere il lutto e farsi domande scomode. In Italia si protesta per la presenza degli stranieri, ma sono davvero loro il male?».

 

Laura è sarda, sposata con un senegalese: sulla sua pelle ha vissuto e vive la diffidenza silenziosa. È arrabbiata contro questi atti figli dell’ignoranza: «Durante la confusione seguita agli spari, un balordo ha rubato le borse dalla bancarella di una senegalese. Non li ferma neppure il dolore». «Un gesto infame che ha gettato paura nel quartiere», ribadisce Anna, madre ultrasettantenne di Alessandro e prima iscritta al comitato.

 

Rissosi e irascibili?

 

Il furgoncino di Franco è proprio di fronte all’aiuola. Tiene d’occhio la merce accarezzata dalle clienti, senza che nessuna però si decida a comprare. Quel 13 dicembre lo spazio era occupato da un collega «che per la paura ha avuto tre giorni di febbrone». Manifesta benevolenza ma non vuol fingere che i problemi d’integrazione non esistano, anzi la crisi li acuisce. «I controlli nei loro confronti sono teneri. Li reputano dei poverini. Eppure qui hanno in mano il mercato delle borse: nessun italiano le vende più. Non c’è una gestione equilibrata di spazi e licenze. E poi vogliamo parlare delle tasse?». «Sono rissosi e irascibili, intrattabili quando affrontiamo discorsi sul lavoro – continua Priscilla, dal suo banchetto di guanti e sciarpe –. Scontiamo il calo dei turisti, le spese oculate e un’Iva che ti mette in ginocchio».

 

Anche l’asfalto del mercato di san Lorenzo, popolato da ambulanti fiorentini e stranieri, è stato attraversato dai passi della morte. Casseri, mentre si recava al parcheggio sotterraneo, dove poi si è tolto la vita, ha sparato contro il banchetto all’angolo, ferendo in modo grave i due proprietari senegalesi. Uno dei banchetti è ancora chiuso, l’altro ha riaperto dopo due settimane di lutto. Qui nessuno vuole parlare. Si lavora, si posiziona la merce. Si vuole solo dimenticare. Il minuto di silenzio, a saracinesche abbassate e a luci spente, osservato dai commercianti, non lenisce il dolore.

 

Al Centro La Pira

 

Siamo alla vigilia della festa del migrante. Maurizio Certini, presidente del Centro internazionale La Pira, pur indaffarato per i preparativi dello spettacolo con ben trenta delle comunità straniere presenti in città, non ci lesina tempo. Da 34 anni la sede di questa singolare casa dei popoli ha visto passare più di settemila studenti. La sala delle conferenze, su due livelli – di cui uno ora è una biblioteca –, un tempo era la sala di preghiera per gli amici musulmani. Mentre apre le porte delle aule per le lezioni d’italiano per stranieri, ci confida la fatica di vincere i pregiudizi. Ricorda ancora quando, dopo una discussione accesa con un giovane migrante, concluse: «Perché sei musulmano non posso parlare con te. Era semplificare e gettare al vento le relazioni vere sperimentate negli anni, ma potevo cedere allo scatto del momento e l’amicizia si è ricomposta».

 

Su piazza Dalmazia conia un’espressione singolare: “La cultura del nulla”. «È questa cultura che avanza e arma le mani dei deboli, che spinge a gesti risolutivi. C’è una responsabilità delle parole e dei media, ma non bisogna arrendersi all’ineluttabile. La reazione della città è stata significativa, la pace va avanti e si nutre di fatti semplici e di relazioni vere». Alla messa del 25 gennaio, a san Frediano, è un tripudio di lingue e di colori: Perù, Ucraina, Romania, Filippine…

Padre Stefano Messina è direttore dell’ufficio diocesano Migrantes. La sua strategia per favorire l’accoglienza delle comunità straniere ha predisposto delle chiese dedicate, sacerdoti originari dei diversi Paesi per «non perdere le radici culturali e consentire un reale dialogo con il territorio». Sogna luoghi dove sia possibile far cultura insieme: teatri, associazioni, orchestre, ma qui ci vuole un lavoro in sinergia con le istituzioni.

 

Con grembiulone e mestolo Alessandro Martini, presidente della Caritas diocesana, offre penne al pomodoro ai 600 ospiti convenuti al convitto della Calza per la festa vera e propria. I numeri dei commensali non lo spaventano: gestisce già due mense, 24 case di accoglienza e un servizio di continuità assistenziale per gli immigrati non regolari e senza fissa dimora con ben altre cifre. Firenze e la Toscana possono rappresentare un modello nell’accoglienza degli stranieri, ma Alessandro non ne è convinto: «In Italia vigono due “s”: strano e straordinario. Viviamo di emergenze e sappiamo anche affrontarle, ma non possiamo farlo con il dolore della comunità senegalese. Vivono con noi da 20 anni, lavorano nelle concerie, nelle fonderie, fanno lavori duri e solo chi ha perso il lavoro vende borse». Sui segnali razzisti precisa: «Non siamo preparati a questa stagione umana di contaminazione e di arricchimento. Da nativi scopriamo la nostra fragilità culturale e temiamo gli stranieri perché hanno entusiasmo e sanno aggredire la vita e il futuro. Su questo non possiamo diventare antagonisti, ci vuole maggiore reciprocità».

 

Dall’imam

 

Non istituzionale è il dialogo tra comunità islamica, Chiesa cattolica e movimenti ecclesiali, eppure il suo ruolo è importantissimo, conferma l’imam Izzedin Elzir, soprattutto dopo piazza Dalmazia: «Mor e Modou erano musulmani, ma non abbiamo voluto che la loro morte diventasse un fatto religioso. Siamo stati a fianco della comunità senegalese, ma questo fatto ha colpito tutta la nostra realtà fiorentina. Firenze è una città in dialogo, ha risposto in maniera vera e sincera alla tragedia e tutti ne siamo usciti più fratelli, più amici, più liberi». Certo bisogna lavorare di più sulla cultura delle regole e non sullo scontro di civiltà, anche nei luoghi del commercio, insiste l’imam.

 

Tornando alla lapide di piazza Dalmazia, sorprendo in un momento di raccoglimento Jacqueline, ivoriana. Lavora in un ospedale e talvolta, davanti al suo sportello, vede qualcuno cambiare fila: «Temono che non sappia rispondergli, invece sono qui da quasi dieci anni. Quando avremo anche un autista di pullman cinese, un’insegnante elementare marocchina, un professore universitario senegalese, allora avremo in mano le vere armi per vincere il razzismo». E su quella tomba quelle parole chiedono di diventare fatti, presto.

Maddalena Maltese

 

 

Box 1

Renzi: reagire integrando conviene

 

Matteo Renzi, sindaco di Firenze, il giorno dopo le morti di piazza Dalmazia, ha voluto un consiglio comunale straordinario nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, una reazione solida e solidale che testimonia una comunità ferita ma sempre aperta e accogliente.

 

Dopo un mese come sta reagendo la sua città?

«Quello di dicembre è stato un gesto isolato, allucinante nella sua modalità razzista e folle, opera di un singolo. La reazione è stata quella di un abbraccio abbracciato, per usare un’espressione poetica: comunità senegalese, il vescovo, l’imam, il rabbino, il commerciante, il polemico, quello di destra, quello di sinistra, c’erano tutti. Oggi non vedo un cambiamento di linea o di strategia. Integrare conviene a tutti».

 

C’è una priorità su cui punta?

«La grande frontiera di integrazione per noi è la scuola, la vera sfida è lì. Non voglio archiviare il fatto di dicembre, ma lo voglio catalogare per quello che è: non il segno di una città razzista, ma di una città ferita dal razzismo, che reagisce con valori di accoglienza e ragionevolezza. Il nemico da abbattere è la superficialità e la paura. La nostra città ha vinto quando ha saputo accogliere».

 

 

Box 2

 

Mons. Maniago: la violenza non ci appartiene

 

Due sono le eccellenze di Firenze per mons. Claudio Maniago, vescovo ausiliare della città: l’arte e le opere sociali. In prima linea durante l’emergenza Lampedusa nell’aprire le porte di canoniche e centri, ora si ritrova a fronteggiare episodi cruenti di intolleranza.

 

Prima l’aggressione al vescovo, ora queste morti, cosa succede a Firenze?

«La nostra città non era abituata a questa violenza, non c’era mai stato un episodio di tale gravità e mai segni così evidenti di intolleranza. Le tensioni ci sono, c’è la fatica, la convivenza richiede un cammino faticoso che deve superare pregiudizio e odio, fortunatamente limitato. Ci sono difficoltà sociali e questo non dipende dal fatto che si è stranieri. Nella tradizione della città c’è sempre una dialettica aperta, ma mai la soppressione. Certo, si sta allentando il tessuto morale e sociale, e su questo serve riflessione».

 

Un consiglio alle istituzioni?

«Potrebbero sostenere le situazioni positive perché trainino ciò che può diventare cultura. La base è disponibile ma ha bisogno di segnali. Occorrerebbe valorizzare, in una sussidiarietà vera, delle opere che già ci sono e sono segnali importanti, vedi il Centro La Pira. Anche noi come Chiesa abbiamo degli esempi nel clero: vari sono i sacerdoti stranieri che curano diverse comunità anche periferiche e lontane. Nessuno si è mai lamentato per la loro nazionalità. Occorre dare esempi». 

 

Continua su www.cittanuova.it – Speciale Firenze.

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