Finmeccanica si concentra sulle armi

Intervista a Maurizio Simoncelli, esperto del centro di ricerche “Archivio Disarmo”, sulle strategia del gruppo industriale controllato dallo Stato
finmeccanica

È l’industria strategica per eccellenza. Finmeccanica si autodefinisce il «primo gruppo industriale italiano nel settore delle alte tecnologie e tra i primi dieci player mondiali nell’Aerospazio, Difesa e Sicurezza».
Lo Stato è ancora l’azionista di maggioranza (il ministero dell'Economia detiene circa un terzo del capitale), ma i suoi dirigenti, senza differenza tra i governi di vario colore, hanno programmato una strategia che vede la concentrazione degli affari e degli investimenti solo nel comparto degli armamenti. E questo nonostante i casi di corruzione e traffico di armi in cui è coinvolta (di recente c'è stato l’arresto dell’ex direttore commerciale).
Una questione che purtroppo non è al centro del dibattito pubblico. Ne parliamone con il professor Maurizio Simoncelli, vice presidente del centro di ricerche internazionali “Archivio Disarmo”, autore di diversi dossier e testi di approfondimento, tra i più attenti studiosi del legame tra politica internazionale e industria degli armamenti.  
 
Quali sono i numeri di Finmeccanica? Che tipo di strategia porta avanti? 
«Finmeccanica, sin dalla sua costituzione, ha puntato progressivamente ad incrementare il proprio impegno nel comparto militare, disinteressandosi di quello civile, al punto che sta meditando di vendere gli ultimi gioielli di famiglia, Ansaldo Energia e Ansaldo STS. Pertanto non è di oggi questa linea di tendenza portata avanti dai dirigenti, peraltro recentemente ribadita dall’amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi alla Commissione industria del Senato. In realtà, l’orientamento solo verso il settore militare non garantisce né il fatturato né l’occupazione: tra il 2010 e il 2011 gli occupati del gruppo sono scesi da 75 mila a 70 mila, mentre il suo bilancio si è chiuso con un risultato negativo di meno 2,4 miliardi di euro. Il valore delle sue azioni negli ultimi cinque anni è diminuito di tre quarti».
 
Avete provato, come "Rete Disarmo" a far sentire la vostra voce a favore di un processo alternativo di riconversione? Che tipo di risposta avete ricevuto?
«Nessun governo si è mai impegnato concretamente verso la riconversione della produzione militare. Eppure la stessa legge 185 del 1990 relativa al controllo dell’export militare aveva previsto all’articolo 8 che “l'ufficio di coordinamento della produzione di materiali di armamento contribuisce anche allo studio e alla individuazione di ipotesi di conversione delle imprese”. In particolare citava i “fini di tutela dell'ambiente, protezione civile, sanità, agricoltura, scientifici e di ricerca, energetici”. Nel corso degli anni sia l’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, sia la Rete Italiana Disarmo (un network di associazioni, sindacati e centri di ricerca), hanno messo in rilievo come l’impegno governativo sia stato solo quello di sostenere le esportazioni belliche, autorizzandole anche verso paesi assai discussi perché in guerra, con regimi dittatoriali o dove non venivano rispettati i diritti umani (Cina, Israele, Libia, ecc.). Né da parte governativa, né da parte parlamentare ci sono stati atti concreti, tesi a denunciare le violazioni della legge 185, eludendone chiaramente i principi ispiratori».
 
Come potrebbe essere impiegato diversamente il patrimonio di professionalità di Finmeccanica?
«Già a suo tempo si è perso il treno delle energie rinnovabili, su cui in questi anni altre aziende, spesso anche straniere, si sono impegnate con risultati economici invidiabili e conquistando quote di mercato. Le tecnologie satellitari, informatiche, aeronautiche possono essere certamente utilizzate nel settore civile, fornendo, forse nell’immediato minori commesse, ma continue nel tempo. Le aziende del settore militare, invece, sono abituate a lavorare con la controparte pubblica, che ha per lungo tempo garantito ricche commesse e lauti guadagni. Quel che è grave è che i governi sono stati disponibili ad intervenire solo per le commesse militari, non per quelle di utilità civile. Nella situazione di crisi economica diffusa a livello internazionale, questo modo di lavorare garantito dai governi sta venendo meno. La diversificazione produttiva sarebbe una risposta obbligata, oltre che intelligente. Ma questo, purtroppo, non avviene».
 
Sono notizie che ci passano sopra la testa eppure la mancata fusione tra i colossi europei Bae System e Eads sembra una vittoria dell’industria delle armi statunitense. C’entra qualcosa Finmeccanica ?
«Nel corso degli ultimi anni si è assistito alla progressiva concentrazione delle industrie militari in pochi grandi gruppi. Oggi un milione e 200 mila addetti lavorano per i dieci maggiori gruppi divisi tra gli USA (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, General Dynamics, Raytheon, L-3 Communications e United Technologies) e l’Europa (BAE, Thales, Eads, Finmeccanica). Certamente, per ora, il fallimento di questa fusione avvantaggia Finmeccanica, che si sarebbe trovata improvvisamente di fronte alla schiacciante concorrenza di un colosso europeo. Infatti, già si stanno facendo delle ipotesi su nuove alleanze internazionali, come la Thales francese o la Northrop Grumman statunitense. Sembra, però, che comunque si troverebbe in condizione di subalternità sia nel caso francese, sia in quello statunitense, e le conseguenze probabilmente non sarebbero positive per il gruppo italiano».

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