Festival Berlino

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Ha ragione chi ha detto che dietro tutta la faccenda deve esserci un grande vecchio abile come un consumato burattinaio a tirare i fili. Andato al 58° Festival di Berlino per cercare un’occasione di rilancio sulla ribalta internazionale, il cinema italiano si è invece lasciato invischiare nella baraonda del circo mediatico. Tutti a blaterare sulla scena incriminata di Caos calmo, a lanciare proclami in difesa della libertà d’espressione e a indignarsi contro l’ingerenza della Chiesa. Con il risultato che nei giornali stranieri l’immagine dell’Italia è tornata a essere quella che circolava ai tempi della questione romana. Nella polemica è stata coinvolta la stampa italiana presente alla Berlinale, che invece di farsi portavoce delle potenzialità del nostro cinema in cerca di spazio sui mercati esteri si è lasciata trascinare in una querelle tanto stantia quanto inutile. E così, il nostro cinema si è limitato a vivere il suo momento di gloria con l’omaggio a Francesco Rosi. Un po’ poco per chi, confortato dai buoni risultati del prodotto nazionale sul mercato interno, si aspettava una grande operazione di rilancio su quelli esteri. A questo, con un contropiede perfetto, ci hanno pensato gli altri. Americani in prima fila, che hanno inaugurato l’edizione 2008 con Il petroliere. Preceduto da otto nomination all’Oscar, il film di Paul Thomas Anderson è un ritratto del cuore nero dell’America, apologo del potere che genera autodistruzione e che sprigiona tutta la forza seduttiva de denaro. Tratto da Oil (Petrolio) di Upton Sinclair, uno scrittore socialisteggiante che negli anni fra le due guerre mondiali denunciava il peccato originale del suo paese puntando il dito sulle malformazioni del capitalismo e lo segnava con il marchio di Caino, il film racconta la resistibile ascesa di un magnate dell’oro nero che in un impasto di solitudine e rabbia, di avidità e di egoismo crea il vuoto intorno a sé facendo terra bruciata di ogni cosa. Premiato per la regia e per le musiche di Johnny Greenwood, Il petroliere sottolinea come, a differenza degli altri, il Festival di Berlino dia la precedenza all’impegno civile, nonché alla denuncia politica e sociale, piuttosto che a un cinema introspettivo. Su questa linea (dalla quale peraltro è stato automaticamente escluso Caos calmo) si sono iscritti il brasiliano Tropa de elite di José Padilha, Orso d’oro, e il documentario Standard Operating Procedure dell’americano Errol Morris, Orso d’argento. Tropa de elite è un film choc, dove non esiste una linea di demarcazione fra il bene e il male. In una Rio de Janeiro più prossima all’inferno in terra che alla ridente città multicolore esaltata dal folclore del Carnevale, narcotrafficanti e poliziotti corrotti si affrontano in un thriller d’azione, crudo e nervoso. Un’opera prima sorprendente per la capacità di coniugare i modelli del cinema poliziesco con più alte ambizioni tematiche di una disperata rassegnazione collettiva di fronte all’ondata di criminalità, violenza e corruzione che tutto travolge perché hanno ceduto gli argini della coscienza. Ma anche Standard Operating Procedure non scherza. Primo documentario ad essere ammesso in concorso in cinquantotto edizioni, e subito premiato, il film svolge un’indagine fra i torturatori di Abu Ghraib, quei soldati e quelle soldatesse americani che non esitarono a seviziare, umiliare e deridere prigionieri iracheni incappucciati e incatenati, facendosi ritrarre sorridenti da un fotografo come se stessero esibendo trofei di caccia o praticando i rituali goliardici della festa delle matricole. Dopo due anni da quella miserabile esperienza quei soldati parlano: non si assolvono, non si giustificano, non cercano scuse ma rispondono che quello era uno dei volti della guerra. Non l’abbiamo dichiarata noi, sostengono, noi stavamo in mezzo, fra l’incudine e il martello, e l’abbiamo subìta. À la guerre comme à la guerre, verrebbe da dire. Un brutto gioco, uno sporco gioco, ma sempre un gioco. Dove c’è chi vince e chi perde. Ma qui, a perdere, è l’umanità intera.

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