Fare squadra (agli Europei ma non solo)

La vittoria dell’Italia con la Spagna, e ancor più dell’Islanda sull’Inghilterra, dice che il singolo conta solo se abdica almeno in parte alla sua bravura per servire il gruppo
Europei © Michele Zanzucchi 2015

Questi giorni il calcio insegna non poco a una società politica e civile in grosse difficoltà. Al di qua e al di là dell’Atlantico. Così nel campionato europeo di calcio stanno andando avanti squadre che sanno fare gruppo rispetto a quelle che hanno grandi personalità. Italia e Islanda, soprattutto, ma anche Germania e Belgio. In un’epoca in cui i talenti vengono spremuti all’inverosimile durante l’anno, alla fine resta solo il gioco di squadra, quello che nella Coppa America ha permesso al Cile di vincere sull’Argentina di Messi e Higuain, mentre il Brasile dei grandi funamboli è rimasto al palo.

 

Se ne è scritto non poco, inutile aggiungere altro calcisticamente parlando. Vorrei solo proporre una nota psicologica, o piuttosto antropologica. Mi hanno fatto impressione i volti degli sconfitti, di una Spagna sazia di vittorie (i cicli finiscono, prima o poi, quando una grande generazione di giocatori fatalmente invecchia) e di un’Inghilterra incapace di ottenere qualcosa in campo internazionale. Facce smunte, spente, smarrite. Senza certezze. Era evidente, sul terreno, come tecnicamente spagnoli e inglesi fossero migliori, avessero i piedi migliori degli avversari, come si dice. Il problema erano gli occhi, lo sguardo che questi giocatori posavano sulla realtà dura di squadre in svantaggio.

 

Provate a prendere le foto degli sconfitti su un qualsiasi quotidiano o su Internet e a ritagliarne gli occhi, solo gli occhi. Poi confrontateli con quelli dei vincitori. E capirete perché Inghilterra e Spagna hanno perso. Mancava nello sguardo dei loro giocatori la scintilla del “di più”, del volere a tutti i costi qualcosa non per possedere o per vincere solamente, ma per superarsi, per dimostrare che nulla è impossibile se lo si vuole “insieme”.

 

Probabilmente le ragioni dell’assenza della scintilla erano opposte: gli inglesi tramortiti dalla Brexit e dallo smarrimento di fronte alla determinazione degli avversari, notoriamente inferiori, che pure spesso lanciavano il pallone alla “viva il parroco”; gli spagnoli sazi di vittorie e stupiti che gli azzurri riuscissero ad arrivare ovunque prima di loro. Fatto sta che l’inatteso è arrivato. Ma l’inatteso ha sempre una scintilla originaria, il “di più” che nasce dall’umiltà, dalla coscienza del limite.

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