Famiglia e legame sociale nel cambio di secolo

Intervista al professor Marco Revelli sul tema dell’incontro di Torino, luogo emblematico del passaggio dalla certezza della società industriale alle contraddizioni odierne. L’urgenza di un dialogo capace di partire dalla vita reale
Una famiglia numerosa

Quest’anno la Settimana sociale dei cattolici italiani si svolge a Torino. Corre facilmente il pensiero alla città dei santi sociali, ma la capitale sabauda è anche il simbolo del pensiero laico e di quel conflitto di classe che ha segnato intere generazioni nel Novecento e che sembra paradossalmente inabissato nella consapevolezza odierna, proprio mentre si toccano sempre di più i segni dolorosi di crescenti disuguaglianze.

Come abbiamo cercato di evidenziare nell’intervista con Marco Di Marco, esperto Istat, la famiglia è il luogo della cura, dell’accoglienza, che rimuove alla radice la tentazione verso la disuguaglianza, mentre non si può negare una tendenza presente nel mondo laico a considerare la famiglia con sospetto, come se fosse la radice di ogni male, finendo per erigere un muro di incomprensione nel tessuto sociale a tutto favore di un potere finanziario anonimo che distrugge ogni legame nella ricerca ossessiva del profitto.

In contributi precedenti pubblicati sulla rivista Città Nuova abbiamo riportato i risultati di un'interessante indagine di Oscar Marchisio sul mondo operaio, da cui emerge l'idea che la vita familiare sia la radice di una resistenza possibile al senso di solitudine e di rottura che caratterizzano il mondo competitivo.

Sulla questione famiglia e giustizia sociale abbiamo posto alcune domande al professor Marco Revelli, punto di riferimento della cultura laica e di sinistra aperta al dialogo a partire dallo studio sul pensiero novecentesco nelle dinamiche della società industriale e post fordista. Allievo di Norberto Bobbio, è autore di testi (“Oltre il Novecento”, “La politica perduta”, “I demoni del potere”) decisivi per un dibattito sui temi centrali del lavoro, sul senso della politica e la non violenza. Gli atti della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale presieduta da Revelli dal 2007 al 2010 offrono ancora una chiave interpretativa della realtà attuale aggravata dal progredire della crisi.

Come è cambiata la condizione economica della famiglia negli ultimi decenni?
«Credo che Torino sia un osservatorio particolare e insieme privilegiato per capire. Qui è più evidente che altrove il cambiamento di paradigma della geografia della povertà e dell’impoverimento. Torino è stata per tutto il lungo ciclo industriale del cosiddetto "secolo del lavoro" la città fordista per definizione, la "one company town”, e insieme il luogo dove si sono espresse tutte le caratteristiche del Novecento, dal conflitto sociale del movimento operaio alla ricchissima esperienza del cattolicesimo sociale in tutte le sue sfumature. A Torino la povertà appariva una realtà complementare al mondo del lavoro, i poveri erano coloro che per qualche ragione non riuscivano a inserirsi nel mondo del lavoro organizzato, per trauma, disadattamento o fattori individuali come l’alcolismo. Laddove in famiglia c’era il lavoro, la povertà non esisteva».

E cosa è successo in seguito?
«Questa situazione è finita nell’ultimo decennio del Novecento. Il nuovo secolo nasce all’insegna di una figura fino ad allora sconosciuta, e cioè il working poor, colui che nonostante abbia un lavoro è comunque povero. Oggi il 15 per cento delle famiglie con un capofamiglia operaio è in condizioni di povertà relativa e il 5 per cento in povertà assoluta, che è il grado più devastante della povertà. E qui emergono il ruolo e le problematiche della famiglia: per lungo tempo essa ha assolto un ruolo di supplenza rispetto ai meccanismi del welfare, con la distribuzione delle risorse al suo interno ha permesso di non cadere nella condizione della povertà. Era un punto di forza del nostro sistema sociale e un punto di debolezza che caricava sulle famiglie i compiti che in altri Paesi sono a carico delle istituzioni. Oggi scopriamo che questo compito di supplenza non può più essere svolto, in particolare dalle famiglie numerose, per le quali cresce in maniera esponenziale il tasso povertà al crescere del numero dei suoi componenti. In Italia si tratta di una situazione patologica: in alcune aree del Paese le famiglie con più di tre minori hanno un tasso di povertà del 50 per cento. È uno scandalo provocato dall’assenza di politiche per i minori mirate a sostegno delle famiglie che sono invece consegnate alla maledizione della povertà. La presenza dei figli, invece di diventare una benedizione, si tramuta in una maledizione, perché rischia di far precipitare il nucleo familiare al di sotto della soglia di povertà».

Non è il reddito familiare nel suo complesso piuttosto che quello dei singoli individui il parametro reale per poter operare una vera azione contro le disuguaglianze?
«Credo che in questo Paese noi viviamo in una situazione paradossale, perché non esiste una prevalente posizione ostile nei confronti della famiglia. A lungo ha prevalso una retorica sulla famiglia a cui non hanno risposto politiche di sostegno reale, come ho segnalato più volte nella presentazione del rapporto. Siamo il Paese che destina in assoluto la minor parte di risorse a favore delle famiglie e questo avviene in maniera coerente con le scelte dei decisori pubblici che trattano la famiglia in maniera sbagliata, appunto come naturale ammortizzatore sociale. Da qui partono abissali disuguaglianze che non passano solo tra linee di frattura territoriali (Nord/Sud) ma tra strutture familiari. Un bambino che nasce in una famiglia numerosa nasce con l'handicap costituito dalla probabilità di uno a quattro di trovarsi in situazione di povertà. È un’ingiustizia che contraddice in maniera plateale l’articolo 3 della Costituzione sull’uguaglianza almeno nei punti di partenza».

Come si dovrebbe operare in maniera coerente ed efficace?
«Intanto senza nascondere il problema. Ho avuto modo di confrontarmi con decisori pubblici e ho potuto verificare di persona che questo allarme non era affatto percepito e anzi si tendeva a dare comunicazioni rassicuranti credendo che in tal modo scomparisse l’emergenza gravissima delle famiglie numerose e della povertà minorile. Basta guardasi intorno per rendersi conto come altri Paesi riescano con una spesa sociale ben orientata a ridurre il rischio di caduta nella povertà per famiglie e minori. Il criterio delle condizioni familiari è un criterio prioritario per poter intervenire in maniera efficace. Ma il nostro Paese è l’unico insieme a Grecia e Ungheria a non possedere strumenti di garanzia universalistica di reddito minimo. Una sperimentazione fallimentare e frettolosa avvenuta dieci anni addietro ha contribuito a far eclissare questo tema nel dibattito pubblico, eppure si tratta di un tema fondamentale e decisivo».

Eppure il tema del “reddito di esistenza” sembra ambiguo, secondo alcuni, perché non incide sui meccanismi che provocano la disuguaglianza.
«Di fonte al dramma attuale credo che il dibattito sul reddito di cittadinanza deve seguire un approccio pragmatico lontano da ogni tentazione ideologica. Si tratta di non permettere a crescenti fasce di popolazione di cadere in condizioni di abbrutimento o di accettare lavori degradanti per poter sopravvivere. È un problema che prescinde dalla discussione sulla politica economica, dal conflitto tra "statalisti" e "mercatisti". Si tratta di una emergenza, quella di sottrarre il maggior numero di persone dal rischio di dover vivere al di sotto della soglia di decenza».

Ragionando sulle cause della povertà e della disuguaglianza possiamo porre la domanda in questo senso: accettando l’equivalenza tra economia di mercato e capitalismo si arriva alla conclusione che, dopo l’esperimento traumatico del comunismo, non esiste alternativa se non in marginali nicchie consolatorie. Non si può invece ritenere possibile un’economia di mercato in senso partecipativo e democratico?
«Le condizioni che si sono create negli ultimi decenni hanno modificato alla radice i termini del dibattito “socialismo – capitalismo”. Non solo è venuto meno il socialismo reale nella sua versione totalitaria, ma anche il capitalismo ha mutato radicalmente natura dagli inizi degli anni Ottanta, per diventare quel fenomeno descritto magistralmente da Luciano Gallino come “finanzcapitalismo”. È una forma di crisi radicale del capitalismo che vede l’imprenditore industriale scomparire davanti alla prevalenza del potere finanziario. Davanti a questo cambio di paradigma occorre una mobilitazione di pensiero di gran lunga maggiore di quella attuale per immaginare una forma che metta al primo posto non l’accumulazione finanziaria, ma i bisogni reali e le condizioni di vita delle persone, non tanto delle classi sociali ormai difficilmente individuabili. Le persone non sono gli atomi individualisti descritti nella teoria liberista e neanche quei soggetti rappresentati dalla filosofia classica tedesca di impostazione marxiana. Sono uomini e donne in carne e ossa che rischiano di vedere i legami sociali lacerati da un meccanismo che sembra senza guida e senza controllo».

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