Faccia d’artista

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Questa volta la mostra è tutta per loro. Per gli artisti cioè, che spesso rischiano di scomparire dietro le loro opere. Ammirati o detestati a seconda dei gusti e delle mode, mai comunque indifferenti, essi non amano l’anonimato. Vanità, narcisismo, egocentrismo? Non gli mancano di certo, come, in misura più o meno vistosa, a tutti gli uomini. Ma, anche – e questo sì del tutto peculiare per loro – un infinito desiderio di immortalità. Perché se c’è qualcuno che continua a ridire al mondo che l’uomo è fatto per durare, ebbene questi sono gli artisti. I pittori, nel caso. Grandi o piccoli che siano, famosi o modesti, tutti cercano – e la fatica a volte gli si legge in faccia – di mostrarsi nell’appassionata ricerca di questa immortalità. Il risultato sono le loro opere, cioè le loro parole destinate a non andare perdute. Ma, dietro ad esse, stanno uomini e donne di carne. Vederli, guardarli è un incontro di quelli che non si dimenticano. Osservarli da vicino, getta una luce di verità su di loro, fa nascere quella confidenza per cui, tornando a vederne i lavori, li sentiamo più vicini. Forse il cardinal Leopoldo de’ Medici, a metà Seicento, iniziando la collezione degli autoritratti agli Uffizi, era spinto dal nostro stesso desiderio di intimità con i pittori, di condivisione. Il Raffaello ventitreenne che ci guarda dal fondo sobrio è delicato, forse timido; ma sottilmente ambizioso nella posa ricercata. Si avverte un giovane in carriera, timoroso e determinato. Energico invece e senza problemi, Francesco Primaticcio si fotografa per noi col piglio sicuro di un artista internazionale e con un tocco di raffinatezza dato dai colpi di biacca sul berretto. Quanto costi la fatica dell’arte e della lotta per emergere, tra colleghi di primo piano come un Tiziano, emerge dal volto imbiancato di Tintoretto, formidabile imprenditore di sé stesso. Al contrario, la figlia Marietta, pittrice nella bottega paterna, offre l’immagine rassicurante di una ragazza ben vestita e colta, come mostra la posa presso un cembalo. Che l’ambizione lo infiammi e la fantasia gli bruci nell’anima, lo si indovina da come Bernini, a 37 anni si presenta, la bocca socchiusa in un colloquio con lo spettatore che non può essere che impetuoso. A differenza dalla placidità malinconica di un Guido Reni o dal volto dolce e profondo, ipersensibile, di Federico Barocci, il pittore delle tinte primaverili. Orgoglio perfetto da hidalgo, uomo di successo che si è fatto da sé traspare dall’occhio e dalla bocca superba di Diego Velázquez che, in poche pennellate morbide sul volto e sul guanto, parla fieramente a noi della sua genialità, di cui è ben cosciente. Sono volti, tutti questi, sinceri; ma anche, ben studiati. Un fondo di vanità non permette che tutto l’uomo si riveli: si nasconde il dolore, il dramma della creazione artistica e la fatica, essa pure grande, di vivere nel proprio tempo. Che è sempre piccolo in confronto all’anima che cerca intensamente la verità e la bellezza. Perciò a cinquant’anni Rembrandt appare con le palpebre stanche, il volto vissuto su cui la luce, tuttavia, fissa ancora il suo sguardo. Certi ritratti, come questo, sfiorano il capolavoro: in Rembrandt ogni uomo che vuole essere autentico, sfidando convenzioni e incomprensioni, trova qui più che un amico, un fratello su cui le ombre del colore (della vita) vanno scavando pensieri grandiosi. Davanti a una simile confessione gli altri volti di artisti sfilano come ritratti scherzosi, qualche volta immodesti o tranquillamente autocelebrativi – come Angelica Kaufmann con la sua tavolozza ben fornita di colori – oppure bizzarri, come il Canova che, lui scultore, si ritrae mentre dipinge al cavalletto… Il fatto è che ognuno di loro vuol dire una parola a chi l’osserva, lasciare di sé l’immagine che meglio lo definisce: in fondo, nell’autoritratto l’artista vuol vincere la propria insicurezza, la troppa sensibilità che forma la sua gloria e la sua malattia. Vuole scoprirsi. A sé e al mondo. Con una naturalezza sempre maggiore. Se Fattori si vede sotto un luce bianca, Giacomo Balla ci appare mentre sorseggia una caffè. Carlo Carrà si scurisce in volto mentre lavora, teso a cogliere l’essenziale, in una visione dell’arte come fatto metafisico, mentre Pietro Annigoni si atteggia ad orgoglioso fiorentino che ha dietro sé tutta la storia della pittura. Gli artisti vivono della libertà della fantasia. Nel nostro tempo senza storia – perché la storia va divorando sé stessa – ecco Chagall tra i blu di Parigi, Antonio Tapiès che si nasconde dietro la propria firma, Michelangelo Pistoletto che si offre come moderno Narciso. E Mimmo Paladino. Egli si cela, nero su oro dardeggiante, diventando una icona dell’uomo contemporaneo: bisognoso di risalire all’origine del mondo per riconoscere sé stesso. Più che un autoritratto, esso appare immagine di una tensione ad autotrascendersi per dare senso nuovo all’esistere. Paladino, volando con una fantasia che succhia l’anima contemporanea, si libra più in alto di sé stesso, al di fuori. Creando un nuovo splendore. Ma non è forse proprio questo che noi chiediamo agli artisti?

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