Etiopia-Eritrea: assetati di pace

Intervista ad Abba Hagos Hayish Segretario Generale della Conferenza episcopale di Etiopia

Svolta storica per il processo di pace nel Corno d’Africa, con l’accordo siglato il 9 luglio scorso tra il presidente eritreo Isaias Afewerki e il neoprimo ministro etiope Abyi Ahmed Ali che pone fine alla guerra di confine tra i due Paesi, in seguito all’accordo di pace del 2000 mai rispettato. In totale 25 anni di guerra che hanno causato 70 mila vittime, diviso le famiglie, provocato migrazioni forzate. Sul dietro le quinte del processo di pace, abbiamo intervistato Abba Hagos Hayish, Segretario generale della Conferenza episcopale di Etiopia, subito dopo la visita ufficiale di Afewerki ad Addis Abeba e mentre nella capitale è in corso la 19° Assemblea Plenaria di Amecea (13-23 luglio), che riunisce vescovi delle Conferenze Episcopali e delegati di 9 nazioni dell’Africa Orientale.

 

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Abba Hagos, insieme al cardinale Berahnejesus Souraphiel (presidente di Amecea e Vescovo Metropolita di Addis Abeba), era in prima fila a dare il benvenuto al presidente eritreo lo scorso 14 luglio: «La riconciliazione tra i due Paesi è stata iniziata dal nuovo primo ministro della Repubblica Democratica Federale d’Etiopia, Abiy, e anche il presidente dell’Eritrea Afewerki ha risposto positivamente. Questo è stato applaudito tantissimo sia dagli etiopi che dagli eritrei. Le persone erano assetate le une delle altre. Questa guerra è costata la vita a 70 mila persone di entrambi i Paesi, ma a 18 anni dalla fine della guerra (1993-2000) non c’era nè guerra nè pace ai confini, molti giovani sfollati, molti, vittime del traffico di esseri umani, altre giovani vite morte cercando di attraversare il Mediterraneo, o che hanno preso la via della Libia per raggiungere l’Europa. La Chiesa cattolica ha sempre pregato e fatto appello a entrambi i governi, perché ponessero fine al conflitto, e perché rispondessero ai bisogni della gente. Nelle zone di confine, dove i soldati vivono vicino alle famiglie, per i giovani è molto difficile, le ragazze non possono uscire di casa per andare a scuola e tornare sane e salve. Il traffico di persone è cresciuto a dismisura in quest’area e forse qualcuno traeva beneficio da questa situazione. Non si può neanche immaginare quanta sofferenza tra le famiglie, i giovani, gli anziani, i minori… Finalmente adesso i due leader hanno aperto la strada perché i due popoli possano incontrarsi di nuovo».

 

Lei è testimone diretto della sofferenza delle famiglie. Si dice che ogni famiglia in Etiopia ha almeno un parente “dall’altra parte”…

A causa di questa guerra le famiglie sono state divise. Hanno cercato per anni di comunicare per telefono, per lettera, ma era difficile. Io stesso l’ho visto nella mia famiglia, con una zia che viveva dall’altro lato, la sorella di mio padre. Dopo 18 anni è riuscita a venire attraverso il Sudan, per scoprire che suo padre era morto, e così anche le sorelle. Dopo aver seppellito infine anche il fratello è tornata in Eritrea attraverso Kartoum. E questa è la storia di tante famiglie, soprattutto quelle che vivono al confine. Ci sono tanti traumi post guerra, l’unica guarigione possibile è il perdono, il perdono reciproco, e ricominciare una nuova pagina. Perché questi due popoli condividono la stessa cultura, la stessa religione, e genealogicamente sono lo stesso popolo. Sono parenti. Il periodo dell’agonia e della sofferenza sembra concluso, e la preghiera di molte madri e di molti anziani è stata ascoltata. Ecco perché la gente festeggia così tanto la riconciliazione tra i due Paesi. E questo è un miracolo anche per la Chiesa cattolica nell’Africa dell’Est. Quando stavamo scegliendo il tema per la 19° Assemblea di Amecea, eravamo coscienti che ci sono molte sfide e tensioni nella regione causate da conflitti etnici, e quindi i vescovi hanno deciso di partire proprio da lì. Da 4 anni le famiglie, le parrocchie, le comunità dei 9 Paesi di Amecea, pregano per questo evento, ed è incredibile la coincidenza tra l’arrivo del presidente eritreo e l’apertura della conferenza stessa con la solenne celebrazione del 15 luglio scorso [10 mila persone con centinaia di celebranti ndr], nella stessa città, sullo stesso tema su cui stiamo riflettendo come Chiesa. È stato proprio un segno e una benedizione di Dio. La sua risposta al grido di preghiera di molta gente sofferente. È quindi un momento emozionante, ma anche un momento in cui continuare a pregare perché non si torni indietro ma si continui verso una pace sostenibile. Perché i due popoli hanno bisogno l’uno dell’altro.

 

19° Assemblea Plenaria di Amecea (13-23 luglio), che riunisce vescovi delle Conferenze Episcopali e delegati di 9 nazioni dell’Africa Orientale
19° Assemblea Plenaria di Amecea (13-23 luglio), che riunisce vescovi delle Conferenze Episcopali e delegati di 9 nazioni dell’Africa Orientale

Qual è stato il ruolo della Chiesa cattolica nel processo di pace?

Prima ancora della guerra, quando si temeva che potesse scoppiare, la conferenza episcopale dei due Paesi (che era unica fino a 3 anni fa) si era incontrata per discutere la situazione e pregare insieme. Il card. Souphariel insieme ad altri leader religiosi ha invitato capi religiosi e anziani dei due Paesi a contattare i capi politici per chiedere di non fare la guerra, perché il Paese non ne aveva bisogno e non la meritava. C’era quindi già stato un sistema di mediazione di pace che aveva fatto di tutto per evitare la guerra: si erano incontrati al confine, avevano pregato insieme, avevano fatto appello ai leader politici, ma non hanno voluto ascoltarli e questa guerra inutile e mortale si è fatta. Le iniziative di pace però non si sono fermate. Oltre 6 anni fa i capi religiosi insieme agli anziani del Paese hanno creato una commissione, di cui ero segretario, e si è parlato sia con presidente eritreo che con l’allora primo ministro etiope Zenawi. La comunicazione che stava accadendo tra il presidente dell’Eritrea e questo team di mediazione di pace di capi religiosi, la promessa fatta, era esattamente… quanto è successo in questi giorni, ma bisognava aspettare i tempi di Dio. Quindi, certo, la Chiesa cattolica in questo processo di mediazione per la pace ha giocato un ruolo importante. Sia per la sua internazionalità, ma anche per i rapporti con l’Eritrea, e anche la visita di solidarietà dei vescovi di Amecea in Eritrea era stato un altro segno di speranza per la gente.

 

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Nonostante questo, i vescovi dell’Eritrea non hanno potuto prendere parte all’incontro di questi giorni in Addis Abeba…

Siamo in comunicazione con loro via email. Dovevano venire 15 delegati dall’Eritrea, eravamo tutti emozionati, sembrava che i documenti fossero tutti in regola e che il Governo avrebbe rilasciato il visto per facilitare la loro venuta ma dopo 2 settimane ci hanno comunicato che non potevano venire. È una sfortuna, ma siamo profondamente uniti spiritualmente e sono nella nostra preghiera sempre. È la seconda volta che mancano all’Assemblea di Amecea e ci mancano molto.

 

I cattolici rappresentano l’1% della popolazione. Una Chiesa piccola quindi, ma molto vivace e in dialogo con la Chiesa ortodossa (oltre il 50%). Qual è la vostra esperienza, come cristiani, nel dialogo interreligioso?

Abbiamo un Consiglio Interreligioso, ma i leader religiosi hanno cominciato a lavorare insieme ben prima che questo consiglio fosse creato. Si è trattato di dare risposte comuni ai bisogni sociali, riguardo a conflitti, emergenze. Da circa 7 anni è nato un ufficio dove si lavora insieme, appunto l’Interfaith Council for Ethiopia. La Chiesa cattolica ne è membro ufficiale. È un dialogo in azione, non è un dialogo teologico o dottrinale, ma una risposta comune ai bisogni della gente e un lavoro di peace building, riconciliazione, contatti con i leader politici su temi dei diritti umani, quindi l’esperienza è buona. Forse tra i cristiani dovremmo approfondire di più anche un dialogo per appianare le differenze, e puntare su alcuni aspetti ecumenici, ma diciamo che in generale tra cristiani e musulmani lavoriamo insieme per far fronte alle emergenze.

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