Eroe fragile, sempre in fuga

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Sarebbe giusto ricordarlo in silenzio. Di Marco si è scritto e parlato troppo in queste settimane. Anche a sproposito. E anche senza rispetto per la sua tormentata figura, frugando con morbosa curiosità in ogni meandro della sua vita. A che diritto tutto ciò? Il campione dello sport, e Pantani lo è stato con eccellenza assoluta, avendo saputo convogliare nell’impresa sportiva un vortice di talenti atletici ed uno spirito da pirata, è, ai nostri giorni, proprietà di tutti, nel bene e nel male. Esso appartiene alla folla, alla folla deve dare conto, alla folla è dato libero accesso non solo di conoscere la potenza dei suoi cavalli muscolari, la sua cilindrata e le sue prestazioni, ma anche ogni angolo del privato, i suoi affetti, le sue debolezze. Questo in ragione del fatto che lo sport è divenuto appannaggio dell’arte del commerciare: i suoi atleti vivono in vetrina, sono prodotti di valore di cui chiunque può entrare in certo qual modo in possesso, di essi è data pubblica licenza di conoscere ogni qualità.A Marco, di qualità atletiche, la natura ne aveva consegnate molte: quasi uno sberleffo ai suoi avversari miscelare in lui tanto guizzo muscolare, tanta sfrontatezza di sfida, tanta convinzione di poter fare ogni cosa da solo. Compreso dettare in solitudine i tempi ed i modi dell’ultimo atto della sua breve vita. In Pantani lo sport di oggi ha trovato l’uomo ideale su cui proiettare la propria ragion d’essere: nessuno, forse dai tempi di Coppi e Bartali, era mai stato più adatto ad interpretare quel ruolo che vuole l’atleta o campione o nullità. Non vi è spazio, nello sport moderno, per il comprimario, per la mezza figura: essa non interessa il pubblico che divora sport dal teleschermo e non sa scucire un quattrino dalla borsa degli sponsor. Oggi o si vince o si perde: e quando si vince, si vince davvero e per gli altri non restano che briciole. Ma quando l’onda si infrange su una roccia o su un ematocrito indisciplinato, non vi è pietà che possa salvare l’immagine di uno sconfitto. Per questo Marco, colui che, per divina grazia, ha spianato, ai nostri occhi, l’Alpe d’Huez ed il Mortirolo, nel breve volgere d’una stagione ha subìto l’onta dell’umiliazione più malvagia. Dall’altare alla polvere. Bianca, nel caso di Marco, un particolare che ne acuisce il dramma. E così, senza essere mai risultato positivo in gara ad un controllo antidoping, Pantani ne è divenuto l’ombra errante: di lui, perseguitato da telecamere nascoste anche in camera d’albergo, si doveva perpetrare la colpa, senza concedergli di rialzare il capo. Avrebbe tradito il tragico ruolo che il destino sportivo aveva deciso di affidargli. E Marco, forse per incolpevole fedeltà al ruolo, o forse per quella sua umana fragilità che questo sport non gli aveva mai concesso di manifestare, o forse perché nella vita non ha mai trovato nessuno che gli dicesse di no, ha recitato fino in fondo la parte di colui che, sconfitto, non può che morire.Me l’avete ammazzato ha gridato la madre in faccia ai cronisti di questo sport asservito al denaro. Probabilmente non era lontana dal vero. Ma forse Pantani ha donato, con il suo ultimo disperato gesto, a questo sport che osanna solo la vittoria, qualcosa che rende ancora più esaltanti le sue indimenticabili imprese: l’occasione di un esame di coscienza. Lo dimostra quella inaspettata sensazione di colpevolezza, che tutti un po’ abbiamo provato, di fronte alla sua morte. Maurizio Brambatti/ Ansa

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