Ernani, super-romanticismo

L’opera-capolavoro di un Verdi giovane e fremente in scena al Teatro dell’Opera di Roma. Fino all’11 giugno. Da non perdere
foto Opera di Roma

Perchè Ernani piace così tanto? Il pubblico è quanto mai eterogeneo: turisti, appassionati, signore e signori, giovani in tenuta semi-estiva. Sarà per la messinscena e la regia curate con dettagli preziosi e belli da Hugo de Ana?. Certamente, tutto ciò ha un fascino, a cominciare dai costumi cinquecenteschi di squisita fattura che ogni tanto – in tempi di riattualizzazioni fini a sé stesse e ormai ripetitive -– non guastano.

Ma è la musica di Verdi, con il canto assoluto protagonista a sedurre il pubblico. Uso il termine seduzione perché se fino alle tre prime parti dell’opera si assiste  a scene meravigliose di invenzione melodica e di coralità  emozionante, l’ultimo atto – un autentico terzetto appassionato fra i due amanti infelici, Elvira ed Ernani e il terribile, malefico Silva – vede scendere in sala quel silenzio densissimo che significa la presa totale della musica sugli ascoltatori: l’arte come verità. Anche non ci fosse alcuna scena e si potessero chiudere gli occhi, il fascino rimarrebbe.

Cosa ha Ernani, anno 1844, terza opera di successo di Verdi da trascinare ancora oggi la gente? Ritmo, colori sgargianti, passione alle stelle e melodie balenati, incisive ma anche limpide e calme. Ernani, tratto dal dramma romantico di Victor Hugo e trionfante alla veneziana Fenice, a ben ascoltarlo, ha in sè il germe di Trovatore, Traviata, Rigoletto e fino a Macbeth, un Ballo e Otello. Strano?. No, è un lavoro rapido, prismatico in cui il futuro Verdi è già inscritto: verrà solo sviluppato, ampliato, universalizzato in grandi capolavori di teatro-musica-e-vita. Ma tutto, in nuce, è già qui. Basterebbe analizzare tanti brani, solistici o d’insieme – i finali, il coro patriottico, i concertati e i declamati – e ne saremmo convinti.

La storia è certo forte: Ernani è un nobile spagnolo costretto al banditismo, ama riamato Elvira, contesagli  però dal re Carlo e dal vecchio Silva. Vinceranno i due amanti, ma ne morranno perché Silva, diabolico, non perdonerà. In terra non c’è posto per la felicità: la vita come dolore, così tipica di Verdi, il suo pessimismo si direbbe quasi leopardiano, si fa strada. Ma la bellezza della musica è tale da superare il dramma ed essere luce per chi ascolta. Miracolo della poesia vera che vince la morte.

L’edizione romana ha il punto di forza nella direzione di Marco Armiliato, musicista attentissimo, delicato e stringente, dal bel gesto sicuro, gioioso: una volta tanto un direttore non scalmanato o esaltato o cupo, ma sereno. Mette in rilievo i legni e gli ottoni – talora forse a spese degli archi, ridotti – ma con ciò evidenzia il ritmo, le frasi brevi e incisive verdiane che prendono subito di petto e i momenti di concertati come il celebre”O sommo Carlo” in cui Verdi balza oltre l’eredità rossiniana belliniana donizettiana e afferma la sua melodia virile, libera e corale. L’orchestra risponde egregiamente come il coro. Quanto al cast, in replica,  Francesco Meli è un Ernani deciso, dai bei pianissimo, forse la voce dovrebbe talora riposare;  Elvira è una assai promettente Anastasia Bartoli, belle voci il Carlo di Giovanni Meoni e il Silva del russo Evgeny Stavinsky.

Pregevole edizione dagli infiniti dettagli curati da Armiliato con evidente gioia.  Uno spettacolo del genere fa più che bene.

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