Energia e materie prime dietro la guerra in Centrafrica

Il continente africano continua a restare terra di conquista sia per le sue ricchezze, prese di mira dalla Cina, che per le connivenze di tanti dei presidenti dei diversi Stati con la massoneria. Stenta ad affermarsi un vero processo democratico nel governo
Soldati dell'esercito centrafricano a Damara

La guerra civile nella Repubblica Centrafricana – esplosa nel dicembre scorso e che ha portato al potere, domenica 24 marzo, i ribelli della coalizione Séléka, con la conquista della capitale Bangui – è sintomatica del malessere in cui versa il continente africano. Dietro le quinte, infatti, si celano interessi geostrategici che vanno ben al di là delle divergenze politico-istituzionali tra gli insorti e il governo del presidente François Bozizé, costretto a fuggire all’estero.

Le ricchezze del sottosuolo (petrolio a Birao e di uranio a Bakouma) costituiscono, infatti, un fattore altamente destabilizzante per l’ex colonia francese. In particolare, le aperture ai cinesi, a livello di cooperazione economica, da parte di Bozizé, non sono piaciute al governo di Parigi che pare abbia così scaricato la vecchia amministrazione di Bangui, appoggiando, informalmente, la rivolta. Non v’è dubbio, però, che avventurarsi in queste considerazioni potrebbe indurre il lettore a pensare che le vicende centrafricane, un po’ come accaduto in Mali nei mesi scorsi, rasentino la fantapolitica, quasi vi fosse la regia di uno o più “Grandi fratelli” capaci di fare e disfare nelle varie nazioni africane a proprio uso e consumo.  Ed è proprio questo il punto: ciò che viene raccontato dalla stampa internazionale non è purtroppo che una timida rappresentazione di scenari estremamente inquietanti, legati, ad esempio, agli interessi sulle features delle cosiddette commodities, cioè le materie prime alimentari e le fonti energetiche di cui è ricca l’Africa.

D’altronde, non è un caso, se la regione settentrionale del Mali, l’Azawad, teatro nei mesi scorsi di cruenti scontri tra ribelli jihadisti e forze lealiste, sia ricca di giacimenti, ancora non sfruttati di petrolio e uranio. Sta di fatto che, chissà perché, molti dei presidenti africani sono stati o sono tuttora legati alla massoneria. Basti pensare al defunto gabonese Omar Bongo (gran maestro della Grande Loggia Simbolica) o a suo figlio Ali Bongo, per non parlare del ciadiano Idriss Déby, del burkinabé Blaise Compaoré o dell’ex-presidente congolese Pascal Lissouba. E anche Bozizé è un massone, iniziato dal suo omologo congolese Denis Sassou Nguesso, nella potentissima Grande Loggia nazionale francese (Glnf).

Con queste premesse è chiaro che l’Africa continua ad essere una terra di conquista parcellizzata in aree di influenza, direttamente o indirettamente gestite dalle grandi potenze, non solo occidentali, ma anche asiatiche (Cina in primis) o latinoamericane (Brasile). Ma proviamo, ora, ad andare indietro con la moviola per tentare di comprendere cosa è realmente avvenuto in Centrafrica. Il 10 dicembre scorso, i ribelli hanno iniziato una veloce avanzata verso Bangui, con l’intento di conquistare il potere.

Nata lo scorso agosto dall’alleanza tra Convenzione dei patrioti per la giustizia e la pace (Cpjp) e la Convenzione dei patrioti della salvezza e del Kodro (Cpsk), la coalizione Séléka ha raccolto anche l’adesione dell’Unione delle forze democratiche per il raggruppamento (Ufdr). Secondo le dichiarazioni ufficiali, i ribelli avrebbero lanciato la loro offensiva, accusando il governo di Bozizé per il mancato rispetto degli accordi di pace siglati nel 2007, che prevedevano un programma di smobilitazione, disarmo e reinserimento degli ex ribelli del Nord. In pochi giorni, Séléka ha occupato il centro minerario di Bria e le città di Batangafo, Kabo, Ippy, Kaga Bandoro, Bambari e Sibut, fino ad arrivare a circa un centinaio di chilometri dalla capitale centrafricana.

L’iniziativa diplomatica intrapresa a livello ragionale ha portato all’accordo di Libreville, in Gabon,  siglato l’11 gennaio scorso, per porre fine alla crisi che in poche settimane aveva gettato il Paese nel caos. L’intesa prevedeva un “cessate-il-fuoco” immediato, la conferma in carica del presidente Bozizé e la formazione di un governo di unità nazionale. Dovevano, inoltre, tenersi nuove elezioni legislative, al termine di un periodo di transizione della durata di 12 mesi, durante il quale doveva essere nominato un primo ministro espressione dei partiti di opposizione.

L’accordo di Libreville prevedeva, inoltre, il ritiro di tutte le forze militari straniere presenti nel Paese, ad eccezione delle forze africane di interposizione. Bozizé, giunto al potere nel 2003, grazie ad un golpe sostenuto anche dall’esercito del vicino Ciad, sarebbe dovuto rimanere in carica fino alla scadenza naturale del suo mandato, nel 2016, ma non avrebbe potuto revocare il primo ministro durante tutto il periodo di transizione. Il premier e gli altri membri del governo di unità nazionale non potranno, comunque, essere candidati alle prossime elezioni presidenziali. In cambio, la coalizione ribelle Séléka, dopo aver ottenuto la liberazione delle persone arrestate durante il conflitto, si era impegnata a ritirare le proprie milizie dalle città occupate e abbandonare la lotta armata. Cosa che purtroppo non è avvenuta col risultato che, mentre scriviamo, i ribelli, comandati da un certo Michel Djotodia sono liberi di fare il bello e il cattivo tempo. Il fatto che nelle loro fila vi siano mercenari sudanesi e ciadiani, la dice lunga sulla longa manus dei potentati stranieri, sempre in competizione tra loro.

Una cosa è certa: il conflitto centrafricano, militarmente parlando, può essere definito  “a bassa intensità” (low intensity conflict). Ma proprio mentre sembrava acquisito che con un’Unione africana risoluta a far valere il principio “soluzioni africane per le crisi africane” , l’interventismo francese, a volte palese (come nel caso della Costa d’Avorio, della Libia o del Mali), altre volte mascherato (Centrafrica docet), dimostra che il continente è ancora fortemente condizionato dal neocolonialismo.  I delicatissimi problemi di state-building che caratterizzano alcune aree geografiche africane, unitamente all’ossessione delle compagnie straniere in cerca di fonti energetiche, complica, in modo irreparabile, i processi interni dei singoli Paesi, in un contesto di per sé vulnerabile per le condizioni sociali estremamente precarie e l’eccezionale fragilità dei sistemi economici. Lungi da ogni disfattismo, il futuro dell’Africa sembra essere, ancora per i prossimi anni, davvero, tutto in salita.

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