Edc e management: una sfida possibile?

Entrare nelle scelte di governo di un'azienda per fare del mercato un luogo di eguaglianza e libertà. Intervista con l’economista Giuseppe Argiolas
Giuseppe Argiolas

È un vero paradosso. Qualcuno si ostina a chiamarle “aziendine”, eppure le imprese di Economia di Comunione (Edc) affrontano, ogni giorno, la più seria delle sfide.  Perché la questione centrale non è quella di aggiungere un dettaglio o una coloritura etica a un’attività che resta sostanzialmente impregnata da una pratica e da una cultura dell’accumulazione individualista e del poco rispetto dei diritti. Per fare un esempio: è credibile una banca, con sedi in paradisi fiscali e affari nel commercio di armi, che decide di aprire un settore dedicato ai clienti premurosi e alla ricerca di una certificazione etica?

In questi nodi entra Giuseppe Argiolas, docente di "Responsabilità sociale delle organizzazioni" all’università di Cagliari e di “Management ed economia di comunione” all’istituto universitario di Sophia a Loppiano. Riprendiamo con lui, l'analisi del governo di un'azienda sia nelle fasi decisionali che nell'orientamento verso la responsabilità sociale. Gli chiediamo anche un commento alle tesi dell'economista Serge Latouche il quale sostiene che bisogna uscire dalla società di mercato se ci si vuole emendare «dalla logica di un sistema profondamente iniquo e, alla fine, autodistruttivo»
 
Sulla critica al capitalismo avete dei punti in comune con l’analisi offerta da questo filone di pensiero?
 «Penso proprio di sì. L’economia di comunione, nasce come una critica fattuale al capitalismo che è capace di costruire i grattacieli ma non sa farsi carico dei poveri delle favelas. Grattacieli e favelas, simboli della diseguaglianza economica e sociale che attraversa le città, le nazioni, il mondo».
 
Un giudizio che si estende anche al conseguente tipo di globalizzazione?
«Anche su questo terreno si possono trovare dei punti di incontro. Non si può condividere un processo di globalizzazione massificante in cui il più forte abusa della sua posizione dominante e schiaccia il più debole, e in cui il globale spazza via inesorabilmente il locale, azzerando le diversità e imponendo un totalitarismo economico omologante».
 
Ma, in generale, questo non vuol dire andare alla radice di una critica della società dei consumi?
«Credo che nel Dna dell’economia di comunione ci sia una convinzione: non è il consumare che porta alla felicità, ma il dare nella reciprocità. Da qui la necessità di vivere una vita sobria, non governata dagli stimoli continui delle campagne pubblicitarie, ma da scelte consapevoli e misurate dalle reali necessità, chiamate a fare i conti con le necessità di chi ci sta accanto e di chi a chilometri di distanza condivide con noi l’avventura della vita su questo pianeta». 
 
Ma capitalismo e mercato possono considerarsi termini equivalenti ?
«Il mercato non è di per sé capitalista. A mio giudizio, non bisogna confondere la critica al capitalismo con la critica al mercato. Il capitalismo è una delle forme di economia di mercato, non l’unica forma possibile. Il mercato può essere, invece, civilizzante, luogo di libertà e liberazione in cui la vita di ciascuno non dipende dall’elemosina benevolente dell’altro, ma luogo in cui confluiscono le capacità creative, innovative e operative dell’uomo».
 
Da quello che dice si comprende che la questione centrale resta la visione della persona umana nel processo economico. Come la descrive ai suoi studenti?   
«La prima affermazione da tener presente è che la persona non si realizza soltanto nelle relazioni fuori dal lavoro, vivendo invece quest’ultimo come forma di alienazione e annichilimento. È per questo che nell’economia civile non si parla di crescita (il cui opposto è decrescita), ma di sviluppo e di uno sviluppo che non è solo economico, bensì integrale. Ecco perché l’economia di comunione insiste nel voler portare categorie come reciprocità, fiducia, dialogo all’interno delle dinamiche economiche. Perché la vita economica è una delle dimensioni della vita umana, non l’unica certo, ma pur sempre una parte e questo sia a livello personale che sociale».
 
Ma, in questo senso, cosa vuol dire “sviluppo” ?
«Lo chiamerei “sviluppo integrale della persona”. Che passa, cioè, per la questione di senso: non solo cosa fare, ma come farlo e perché. Si pone cioè la domanda su quali siano gli obiettivi da raggiungere, confrontandoli con le esigenze della liceità, della giustizia, della pace, sulle strade da percorrere perché il modo con cui si fanno le cose è altrettanto importante, se non più importante di ciò che si fa. Ecco quindi che mi pare come l’economia di comunione abbia da dire, o meglio offrire una parola in proposito: quella della relazione, della comunione, a tutti i livelli. La relazione, dà senso e valore al lavoro visto come vocazione al servizio, alla compartecipazione nella sua realizzazione ed alla condivisione dei suoi frutti. Dà a ciascun lavoro pari dignità perché, a differenza dell’uniformità, nell’unità convivono gli opposti e si valorizza ciò che è diverso, la diversità è una ricchezza».
 

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