Durer e l’uomo (im)possibile

Dürer è difficile. Come Leonardo. Troppo vasto. Troppo analitico. Troppo insaziabilmente curioso. Impossibile star dietro ad una sete di ricerca tanto vogliosa, ad uno a cui tutto (o quasi) interessa di ciò che appare sotto gli occhi. Uno che insegue la bellezza – senza mai trovarla, a parer suo – nella natura, nell’uomo, nel divino. Gli piace dipingere un acquerello delizioso, l’Iris puro come l’anima; un coniglio perfetto, pelo per pelo come una miniatura fiamminga; fotografare Rotterdam o Trento in vedute che precedono di duecent’anni quelle veneziane. Nello stesso tempo conoscere Erasmo e Pico, gli intellettuali; scambiarsi disegni con Raffaello e Giovanni Bellini; assimilare le morbidezze e il gusto veneto per i ritratti a mezzo busto e le grandi conversazioni sacre (vedere la Madonna del rosario o il ritratto dell’ispido banchiere Függer); interpretare Leonardo e i toscani con un classicismo un po’ duretto ma fortemente espressivo (Giobbe e la moglie o l’Adorazione dei magi, squillante di colore). Si innamora dell’antichità appena scende in Italia e ha il coraggio di dipingere i primi nudi a grandezza naturale (Adamo ed Eva, 1507) della pittura tedesca, segno di studio amoroso del corpo umano, partendo da Pollaiolo e da Mantegna, ma superandoli per libertà e fantasia. Come nelle xilografie, in cui è maestro di inventiva sempre nuova. Riempie di pathos tipicamente nordeuropeo le storie della Vergine o della Passione, le inscena dentro paesaggi ed architetture dove fonde il classico e il realistico, cioè Italia e Germania. Di suo vi innesta, verrebbe da dire vi impone – Dürer è carattere impetuoso e deciso – il gusto per il sentimento. Nessuna imperturbabilità o armonia distaccata, nella sua arte. Anche Leonardo è come lui, un emotivo, fondamentalmente; ha paura di mostrarlo, perciò assorbe i personaggi in un’atmosfera indefinita che li rende immortali, ma irraggiungibili. Dürer, no: e in questo sta per noi la possibilità di un incontro. Diversamente, un uomo così indagatore, un vero microcosmo di sapere e d’intelletto, sarebbe un’icona distante, orgogliosa e persino poco simpatica nel suo perfezionismo, come è noto dai suoi autoritratti, dai tredici anni in su: ha addirittura il coraggio di ritrarsi come un Cristo frontale benedicente, o quasi. Invece, la rocciosa sua fortezza ha delle falde, ed esse sono i sentimenti. Se nel giovanile Cristo fra i dottori c’è un gran agitarsi di mani e di volti, brutti come certi Grünewald o certe caricature leonardesche, negli Apostoli di Monaco (1526) lo studio degli stati d’animo – riflessione, agitazione, ribellione, preghiera – è quasi violento, coniugando monumentalità classica, colore veneziano ad espressività tedesca. Ma bisogna osservarle a lungo queste tavole, pa- zientare nella discesa su per i dettagli, spiarli insomma: diversamente, la loro salda e precisa costruzione li rende im-passibili, privi cioè di emozioni. E resteremmo a disagio con Dürer, che tace. Quando invece egli vorrebbe uscire dalla riservatezza che si impone e farci meditare sulla storia divina ed umana. Nelle xilografie dell’Apocalisse o nella tavola del Cavaliere la morte e il diavolo c’è molto di più che una rappresentazione tardomedievale con il suo senso naturale della morte che sempre accompagna l’uomo. C’è un brivido sotterraneo per qualcosa di incombente che si vuol tenere nascosto. Nella Passione – da cui tutti prenderanno ispirazione, dal triste Pontormo al nervoso Tintoretto fino al Caravaggio del Bacchino malato, riflesso del Cristo sofferente, ai secentisti – Dürer affronta il dolore nei suoi significati reconditi, scandendolo di gesti imploranti (vedi il Gethsemani), di concitazione drammatica, di abbandono: con una religiosità che rasenta il misticismo. Ma che a noi si rivela temperata dal segno rifinito, dall’emozione fissata per sempre – congelata -, dal controllo sulla scena. In questo equilibrio difficile tra armonia ed emotività, tra ragione e passione, sta tutto Dürer. In una stampa Melanconia, incisa nel 1514, egli lascia una ulteriore spia del suo vero stato d’animo, quello di una depressione che, dalle autoaffermazioni superbe della giovinezza e della prima maturità, lo condurrà alla morte e che rappresenta l’altra faccia, quella amara – proprio come Leonardo, così sensibile al suo tempo inquieto – di quest’inesausto perfezionista. Un’immagine di tristezza esistenziale, cosmica. Ma piena di dignità. Dürer appare perciò per noi il ritratto dell’uomo che vive il suo (im)possibile sogno: creare un proprio linguaggio personale dove due civiltà, l’italiana e la nordeuropea, si incontrano; dall’altra restare unico in questa sua conquista geniale. Ma sarà poi davvero così? Dürer lascia sempre aperto uno spiraglio. A noi entrare nel suo mondo, per non rimanere poveri nell’anima. LE TAPPE DI DÜRER 1471: nasce a Norimberga da padre orafo. Ha quattro anni in più di Michelangelo e dodici di Raffello. 1490: viaggi nella regione del Reno, nel ’92 si sposa, nel ’95 scende a Venezia. 1505-06: secondo viaggio in Italia, dove incontra il Bellini. Nel 1511 stampa le xilografie della Piccola e Grande Passione. 1512-19: realizza disegni e apparati per l’imperatore Massimiliano, e viaggia attraverso i Paesi Bassi. 1528: nelle guerre di religione, si mantiene equidistante tra Lutero e Carlostadio sulla disputa iconoclasta. La depressione di cui soffre si aggrava e muore.

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