Dove passano i migranti

Viaggio a Niamey, capitale del Paese africano attraverso cui si accede al deserto libico e siriano. Il bricolage delle politiche europee. Eroismi e vigliaccherie

Deserto. Solo deserto. Questa m’appare la regione di Niamey dall’alto. Atterriamo. Non è un gran aeroporto, quello di Niamey, capitale del Niger. Piuttosto anzianotto, doveva essere un esempio di architettura aeroportuale 50 anni fa, quando il Paese era ancora una colonia francese e i transalpini ci tenevano ad avere una buona vetrina della loro presenza in terra africana. Ora i voli sono pochi, anche se la presenza straniera dovuta alla duplice emergenza (jihadista e migratoria) sta portando da queste parti centinaia di operatori militari e umanitari dall’Europa e dagli Stati Uniti. Senza dimenticare la presenza cinese, sempre più cospicua dopo gli accordi per lo sfruttamento del petrolio nigeriano sottoscritti dal precedente presidente, Mamadou Tandja, destituito il 22 dicembre 1999, da un colpo di Stato dietro cui si sospetta vi sia la mano francese che temeva di perdere le sue grandi exploitation di materie prime, tra cui oro, oro nero e soprattutto uranio.

Questo vedo: un aereo dell’Onu (precisamente del Pam, del Programma alimentare mondiale), un altro di Médecins sans frontières, un grande hangar della Bolloré, grandi cartelli pubblicitari della compagnia telefonica Orange, un camion cisterna della Total, un grande Airbus della République Française. Signori, è questo il Niger? Parrebbe piuttosto una succursale della France SpA.

All’interno dell’aeroporto ci sono due operatori locali di prodotti artigianali (la loro mercanzia è esposta al suolo, non hanno un vero e proprio negozio), un bar (che non vende alcolici), un duty free con cento flaconi di profumo e dieci bottiglie di whisky (ma la commessa sta dormendo dietro al banco, per terra). Le scalette che separano i vari locali sono assolutamente sbeccate ed hanno la ben nota caratteristica di avere altezze diverse a ogni gradino, creando così non poche difficoltà di deambulazione soprattutto per le persone anziane. Per questo – potenza africana – a ogni scala c’è un inserviente che aiuta la gente a salire e scendere. Anche io vengo preso sotto braccio perché ho i capelli brizzolati. Eh sì.

Mentre aspetto i miei ospiti, ho a che fare con decine di venditori ambulanti che vogliono smerciare franchi cfa e schede telefoniche. Mahmud mi vuole affibbiare addirittura dei soldi siriani (!?!), mentre suo figlio Ismail, 11 anni, vuole solo portarmi le valige: «Oggi è sabato, sono qui solo per questo. Lunedì vado a scuola».

I miei amici mi accompagnano, attraverso un itinerario che mostra subito la precarietà della vita di queste parti – baracche, sporcizia, fogne a cielo aperto, endemiche mancanze infrastrutturali −, verso la cattedrale, dove sarò ospitato nel Centro Missionario. Ed ecco la prima sorpresa: dopo aver attraversato un mercato di frutta e verdura costituito solo da mucchi di mercanzia in vendita e da rifiuti vari, i cancelli del compound cattolico risultano chiusi e un cordone di sicurezza controlla ogni cosa. In occasione della fine del Ramadan, in effetti, le autorità hanno raccomandato la massima attenzione per il timore di attentati jihadisti, sapendo che oggi nella cattedrale sono riunite circa 2 mila persone per la cerimonia delle cresime. Riesco comunque a guadagnare la mia stanzetta – precaria, ma fornita della preziosissima aria condizionata −, disposta come le altre simili attorno a un cortiletto in terra battuta e qualche albero, mentre i guardiani (musulmani) fanno la loro preghiera stesi sui tappetini; ma non tutti, gli altri guardano il Mondiale russo alla tv.

Ceno in un ristorantino “siberiano”, per via dell’aria condizionata a palla, occupato da una folla di famiglie ancora nell’ebbrezza dell’Eid Mubarak. Tutti eleganti, spesso con abiti di plastica sfavillanti e rumorosi. Mi impressiona la quantità di bambini seduti alle tavole, o più spesso impegnati a correre tra le tavole, con l’argento vivo addosso (o forse qui in Niger sarebbe meglio dire con l’uranio vivo addosso). Cibo discreto, scelgo una buona zuppa di verdure con pollo. All’uscita passiamo dalla Siberia al Sahara, per poi tornare nella Siberia di un supermercato appena attraversata la strada: sugli scaffali i prodotti sono all’80% francesi, parrebbe di essere a Lille o a Nizza, se non fosse per qualche dettaglio un po’ trascurato.

L’indomani, domenica, scopro il compound cattolico. È una sorta di cittadella, con la cattedrale, un’altra cappella dedicata a sant’Abramo, l’arcivescovado, due o tre scuole, decine di uffici diocesani, la Caritas, il servizio media… Di tutto un po’, sotto un bel po’ di alberi, tutto in terra battuta. Ai robusti cancelli stazionano solerti e gentili dei guardiani che garantiscono la sicurezza dei luoghi. È domenica, si celebrano tre messe, una in francese alle 7 e un’altra alle 9, mentre alle 11 è in inglese, cioè ogni 2 ore, perché qui è tale la durata consueta della messa. «Di meno non ne varrebbe la pena», come mi dice un uomo sulla trentina sommerso da 3 o 4 figli. La Chiesa non basta, è troppo piccola, e quindi sul sagrato, sotto gli alberi dell’ampio cortile antistante, vengono sistemate delle sedie di plastica, assai sporche a dire il vero, sulle quali s’accomodano famiglie in cui non mi è facile contare i bambini: il Niger ha la palma d’oro per la fecondità a livello mondiale, con 8 figli per famiglia. Anche perché la poligamia qui non mette praticamente un limite al numero delle moglie e la povertà della vita rurale spinge a mettere al mondo quante più braccia possibile, atte ad aiutare nei lavori di campagna.

Il fervore liturgico è quello consueto di queste lande africane, con un’esplosione di gioia collettiva, cori imponenti e potenti, strumenti musicali a gogò, tamburi in primis. E poi le omelie sono dei veri e propri show di spirito evangelico di famigliarità locale, con uso di simbologie che vengono dalla notte dei tempi e che spesso e volentieri richiamano alle religioni tradizionali locali, “cristianizzando” l’esistente e “allargando” le superstizioni.

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