Dorothy Day: non chiamatemi santa

Personaggio scomodo, affascinante, vicino in questo momento di crisi.
Dorothy Day

Americana. Classe 1897. Donna. Laica. Attivista libertaria, giornalista impegnata politicamente. Affascinata da idee socialiste. Una relazione giovanile con un giornalista: rimane incinta, abortisce. Poi una nuova relazione: per quattro anni convive con Forster Batterham, un botanico inglese d’idee anarchiche, che non crede al matrimonio e non vuole figli. Lei è di nuovo incinta. Vuole la figlia: «Sentivo che la mia casa non sarebbe stata tale senza di lei». Nel frattempo s’avvicina alla Chiesa cattolica. Nasce la figlia, la chiama Tamar Theresa. Decide di farla battezzare. Questo la porta alla rottura con il suo compagno. Rimane sola, con la figlia. Nello stesso anno, il 28 dicembre del 1927, a trent’anni, anche lei viene accolta nella Chiesa cattolica. Per tutta la vita si dedica alla causa della giustizia sociale, illuminata, da quell’anno in poi, dalla fede.

Sgradita a molti, amata da tanti: una figura scomoda. Non una santa come spesso s’immaginano le sante: con gli occhi un po’ all’insù, lo sguardo compassato, l’aureola attorno al capo. Eppure per Dorothy Day s’è aperta nel 2000 la causa di beatificazione. C’è stato chi ha arricciato il naso, giudicandola indegna a causa dei peccati di gioventù: qualcuno che s’impegna a non perdere la minima occasione per criticare gli altri lo si trova sempre.

 

Ma papa Giovanni Paolo II, che sapeva leggere nel profondo dei cuori, fu ammirato dalla grandezza di Dorothy e le conferì il titolo di «serva di Dio». Già prima della sua morte, avvenuta nel 1980, Dorothy era considerata da molti una santa, per la sua vita di autentica cristiana indomita, tutta dedicata alla causa dei poveri e degli emarginati. Ma lei non ci stava, preferiva sapersi lì in mezzo alla sua gente piuttosto che al riparo sugli altari: «Non chiamatemi santa. Non voglio essere allontanata così facilmente», diceva. Ogni autentica santa o santo probabilmente direbbe lo stesso. John O’Connor, il cardinale di New York che ha iniziato il processo di beatificazione, confessava: «Poche persone hanno avuto un tale impatto sulla mia vita, anche se non ci siamo mai incontrati… Di certo, se una donna ha amato Dio e il prossimo, questa è stata Dorothy Day». Ora la biografia di Jim Forest ci fa conoscere meglio questo personaggio così singolare e affascinante: Dorothy Day, una biografia (Jaca Book, 2011).

 

Fin da ragazza la Day sentiva che non poteva ritenersi soddisfatta di una vita borghese. Era attratta dalle zone della sua città che molta gente evitava. Riusciva a cogliere la bellezza anche in mezzo a quella desolazione urbana, in quelle vie tetre che emanavano odori pungenti: «Qui – diceva – sento che è il mio posto». Ritiratasi dall’università, iniziò a lavorare per l’unico quotidiano socialista di New York. Organizzava dimostrazioni, incontrava sindacalisti, anarchici, rivoluzionari. Nel ’17 finì per la prima volta in prigione per aver protestato per l’esclusione delle donne dal voto: nella sua vita finirà in prigione diverse volte per proteste, l’ultima a 75 anni. Iniziava intanto il Primo conflitto mondiale. La Day faceva la giornalista, ma iniziava a pensare che scrivere fosse una risposta debole a un mondo in guerra. Non amava le chiacchiere, così s’iscrisse a un corso per infermiera.

 

Dal ’22 cominciò a sentire dentro di sè la consapevolezza d’essere sempre più attratta da Dio e dalla religione cattolica. Abitava allora con tre ragazze che andavano a messa e pregavano ogni giorno. Dorothy comprese che «venerare, adorare, rendere grazie, supplicare erano gli atti più nobili di cui l’uomo è capace». Cominciò a fare qualche visita notturna a una chiesa. Vedeva in quella cattolica «la Chiesa degli immigrati, la Chiesa dei poveri». Vi entrò con tutta la passione del suo cuore. Poi venne la Grande depressione, e lei sempre in prima linea. L’8 dicembre del ’32, festa dell’Immacolata, dopo aver partecipato a una manifestazione a Washington, entrò in una chiesa e pregò di fronte alla statua della Madonna, «una preghiera speciale con lacrime e angoscia, perché trovassi il modo di usare i miei talenti per i miei compagni di lavoro e per i poveri».

 

Il giorno dopo incontrò Peter Maurin, un francese vent’anni più vecchio di lei. Fu l’uomo della sua vita, ma non nel senso sentimentale del termine. Maurin era un ex Fratello cristiano, aveva lasciato la Francia per il Canada e poi per gli Usa. Era un’anima pura, che viveva abbracciando la povertà come una vocazione, quasi da francescano. Con lui la Day capì di aver trovato la sua vocazione: Maurin era il sostegno, colui che la spingeva a essere sé stessa, lo sfondo sul quale la sue idee prendevano forma. Si diedero subito da fare. Fondarono il giornale Catholic worker (Il lavoratore cattolico) e successivamente il Catholic worker movement. Aprirono una casa d’ospitalità per gli impoveriti della Depressione, per quelli che avevano perso il lavoro e i loro averi. Il movimento della Day si diffuse rapidamente: oggi ci sono più di cento comunità sparse in tanti punti del mondo.

 

Dorothy Day si è sempre dichiarata pacifista. Durante la guerra civile spagnola del ’36 rifiutò apertamente di sostenere una delle due parti in guerra, sebbene il partito guidato da Franco si presentasse come protettore della fede cattolica. Molti storsero il naso a quella sua posizione: il Catholic worker perse due terzi dei lettori. Ma lei non spostò le sue idee neanche d’un dito. Poi, durante la Seconda guerra mondiale, molti giovani del Catholic worker, seguendo le idee della Day, trascorsero anni in prigione, o nei campi di lavoro o come personale medico disarmato, pur di non combattere. Non solo giornalisti, ma attivisti, così lei voleva i redattori del Catholic worker: tanti finirono in carcere per professare le loro idee.

 

Ammirata da papa Paolo VI, quando ormai non poteva più muoversi venne da lei Madre Teresa di Calcutta. Poi Dorothy morì, come muoiono i giusti, che hanno fatto riecheggiare nella loro vita il salmo: «Solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo. Fa abitare la sterile nella sua casa quale madre gioiosa di figli». Il segreto di Dorothy? Una volta lo rivelò ella stessa: «Se ho fatto qualche cosa nella mia vita è perché non mi sono mai vergognata di parlare di Dio».

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