Donne con l’hijab

Portare il velo nelle sue varie forme non è un’invenzione islamica. Il sottile equilibrio tra rispetto dei diritti delle donne e la loro libertà di autodeterminazione

La notizia è trapelata in questi giorni, ma risale al 2 marzo scorso. Vida Mohavedi, una giovane donna iraniana, è stata condannata ad un anno di reclusione per aver indotto alla «corruzione e alla dissolutezza» dei costumi mostrandosi in pubblico, in piazza Enghelab a Teheran, senza l’hijab, il velo islamico che nell’Iran degli ayatollah è obbligatorio. Non è la prima, anzi sono ormai decine le iraniane che protestano contro l’obbligo del velo e vengono arrestate. Il caso più drammatico è quello di Nasrin Sotoudeh, arrestata a giugno 2018 e condannata il mese scorso a 38 anni di carcere e 148 frustate. Tra le numerose imputazioni contestate alla famosa avvocata dei diritti umani, l’aver difeso «le ragazze di Enghelab Street», che tra dicembre 2017 e gennaio 2018 si erano tolte il velo pubblicamente per protestare contro l’obbligo imposto dal regime.

L’idea di imporre alle donne degli obblighi di abbigliamento, e non solo, viene da lontano e non è certo un’invenzione islamica. «Tutte le nostre ragazze devono essere velate quando entrano nell’età adulta». Potrebbe sembrare un’affermazione talebana o islamista. Invece è l’esordio del De virginibus velandis del 213, scritto oltre tre secoli prima della nascita del Profeta dell’Islam da Tertulliano, uno dei padri della Chiesa latina. Lo scrittore apologetico cartaginese fa un’altra affermazione storicamente molto intrigante: il velo sì, ma senza esagerare come «le donne pagane d’Arabia che coprono non solo il capo ma addirittura tutta la faccia». Quindi il niqab delle donne arabe (un velo nero sul viso che lascia scoperta solo una fessura per gli occhi, completato da un lungo abito altrettanto nero, l’abaya), sinonimo di islamismo intransigente, era forse già in uso nella regione millenni prima del wahhabismo (sorto del XVIII secolo d.C.) e adottato nel 1962 come dottrina ufficiale dal Regno saudita, che ha reso obbligatorio il niqab.

Ci sono altri due Paesi in cui le donne sono tenute a indossare in pubblico un abbigliamento “consono” alla visione islamista: uno, come si diceva, è l’Iran degli ayatollah. È d’obbligo l’hijab (il più diffuso velo islamico, che copre la testa e il collo) ma è molto più apprezzato dai conservatori il chador che copre il corpo tranne viso e mani. Nell’Afghanistan e in alcune aree del vicino Pakistan controllate dai talebani è rigorosamente prescritto il chador per le bambine e il famigerato burqa per le donne (comprensivo di guanti), che copre rigorosamente tutto il corpo, lasciando solo qualche forellino per vedere dove si va.

Ma a parte queste esagerazioni che a noi occidentali appaiono insopportabilmente lesive della dignità delle donne, anche perché imposte in modo maschilista senza lasciare libertà di scelta, in altri Paesi il rapporto delle donne islamiche con l’hijab è articolato e merita attenzione. Non è giusto fare di tutta l’erba un fascio. Vivendo in un Paese come la Giordania, dove la libertà di scelta delle donne nell’abbigliamento è ampia, seppure evidentemente condizionata a livello sociale o familiare come dovunque, è significativo incontrare per strada o a scuola ragazze velate con eleganza e coetanee non velate e vestite in modo sobrio, che stanno insieme con grande disinvoltura.

Come individuare le chiavi di lettura dell’uso dell’hijab partendo dal sentire delle donne musulmane, andando oltre le imposizioni degli islamisti? Mi hanno colpito due atteggiamenti di donne musulmane contemporanee che possono aiutare noi occidentali a capire che il velo è prima di tutto una questione di scelta e di identità.

Il primo è di una grande scrittrice e sociologa marocchina, Fatema Mernissi (1940-2015), che pochi anni fa così individuava uno degli aspetti centrali della condizione femminile nel contesto islamico: «Se i diritti delle donne sono problematici per alcuni moderni uomini musulmani, non è a causa del Corano, né a causa del Profeta, e ancor meno a causa delle tradizioni islamiche. È semplicemente a causa degli interessi di una élite maschile». Il secondo è di Nazma Khan, giovane statunitense originaria del Bangladesh e ispiratrice del World Hijab Day (diffuso in 140 Paesi) che il primo febbraio di ogni anno, dal 2013, sottolinea il diritto delle donne islamiche di vestire l’hijab come libera scelta e segno della propria identità religiosa e culturale, opponendosi alla discriminazione e all’obbligo imposti per motivi politici o di controllo parentale.

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