Il dolore? Non da soli

Come vivono i ragazzi di oggi le situazioni difficili in cui si trovano? E che nome hanno i vari volti della sofferenza alla loro età? Alcuni di loro ce ne parlano
Una processione di fedeli arriva in Piazza San Pietro, Citta del Vaticano, 29 febbraio 2016. ANSA/GIORGIO ONORATI

Come si può amare il dolore? La risposta è semplice. Non si può. Dietro ogni dolore, possiamo scoprire un volto di Gesù che soffre e nel quale anche ciascuno di noi si può identificare. È questo il grande messaggio che Chiara Lubich, una maestra del nostro tempo, consegna alle nuove generazioni: «Il dolore non si può amare, perché il dolore è un non essere. La malattia è una non salute. L’angoscia è una non gioia. È sempre un negativo. Invece chi va amato è Gesù crocifisso e abbandonato, il quale è presente in ogni persona sofferente». Ho avuto la fortuna di osservare l’effetto di queste parole su un folto gruppo di ragazzi tra i 13 e 17 anni. Abbiamo provato a dare un nome ad alcune situazioni in cui riconoscere un aspetto di questa sofferenza: “Non ho”, “Non posso”, “Mi manca”, “Sono deluso”, “Mi sento tradito”, “Sto male per…”, “Sono triste per…” e altro ancora.

Ognuno dei ragazzi ne sceglie uno e prova a confrontarlo con la propria vita in qualche minuto di silenzio. Ritagliarsi quello spazio, dopo aver accettato la sfida di lasciare per un’ora lo smartphone dentro un cesto, è già un miracolo. Il secondo miracolo è riuscire a condividere con gli altri qualcosa di sé. «Ho scelto “non posso”». «Non posso giocare alla play, perché devo studiare… ma in realtà mi sono accorto di tutte le cose che posso fare, e mi è venuto da ringraziare per quanto sono fortunato». Un altro sceglie “ho paura”: «Di quello che la gente pensa di me, ho paura di sbagliare, di parlare, di cosa diranno gli altri, e per questo sono sempre insicuro su cosa dire e cosa fare». «La maggior parte dei ragazzi della mia età – spiega una ragazza con la sua abituale saggezzapensa che il mondo ce l’abbia con loro: Perché?

Cosa ho fatto io? Siamo convinti di essere invincibili e immortali, quindi se succede qualcosa di brutto ti scoraggi. Nella mia classe sono quasi  tutti atei, ma anche per me che sono cresciuta con la fede, è difficile riconoscere la presenza di Dio nei momenti più dolorosi. Solo dopo esperienze spirituali molto forti e con l’aiuto di alcune mie amiche ci riesco per un po’». Chi sceglie “mi sento solo” preferisce non spiegare perché. Possiamo immaginarlo, e acquista così spessore il ritrovarsi tra coetanei, dove ciascuno si sente accettato per quello che è, e insieme – tra gioco, risate e normalità – ci si aiuta anche ad alzare lo sguardo, a spingere l’ostacolo in avanti.

«Mancava un bigliettino: il “non essere” – dice una ragazza –. Penso che il dolore sia questo non essere, questo sentire che non sai chi sei»; è la domanda su come ti collochi nel mondo. C’è poi chi, tra le lacrime, riesce a donare la perla del proprio dramma: la scomparsa della mamma, la ferita di un abbandono, l’incomprensibile morte di un coetaneo. Possiamo solo piangere insieme. «Sin da piccola mi hanno sempre detto che, quando ho un dolore, ne faccio un pacchetto e lo regalo a Gesù. Ma se io non ce la faccio a portare il pacchetto?». «Beh, cerchi qualcun altro che lo porta con te». Con questo senso di dolore condiviso abbiamo deciso di bruciare i bigliettini. «Ciascuno da solo non prendeva fuoco, solo insieme hanno ravvivato la fiamma. Una cosa simbolica che però ci ha dato tanta luce».

Dopo questa carrellata di momenti bui nel quotidiano, ritorna la domanda: ma Dio cosa c’entra con tutto questo? E a spiazzare tutti è uno di loro: «Quello che mi aiuta è guardare Gesù. Anche lui sulla croce ha sofferto e ha provato tante di queste cose che abbiamo detto noi. Si è sentito forse deluso, e tradito, e solo. Pensare che questo dolore lui lo porta con noi, mi fa sentire più leggero».

 

Lettera d’amore a Gesù Abbandonato

«Ogni dolore fisico e morale è apparso un’ombra del suo grande dolore. Sì, perché Gesù abbandonato è la figura del muto: non sa più parlare. È la figura del cieco : non vede; del sordo: non sente più il Padre. È lo stanco che si lamenta. Rasenta la disperazione. È l’affamato di unione con Dio…

«E a quanti si vedevano simili a Lui e accettavano di condividere con Lui la sua sorte, ecco che Egli risultava: al muto la parola; a chi non sa la risposta; al cielo la luce; al sordo la voce;allo stanco il riposo, al disperato la speranza, all’affamato la sazietà, all’illuso la realtà, al tradito la fedeltà, al fallito la vittoria, al pauroso l’ardimento, al triste la gioia, all’incerto la sicurezza, allo strano la normalità, al solo l’incontro, al separato l’unità, all’inutile ciò che è unicamente utile, lo scartato si sentiva eletto,. Gesù Abbandonato era per lo scioccato l’equilibrio, per l’inquieto la pace, per lo sfollato la casa, per il radiato il ritrovo. Così con Lui le persone si trasformavano e il non senso del dolore acquistava senso».

Chiara Lubich – Il grido – Città Nuova, Roma 2000

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