Disabili, dignità e politica. L’esempio sardo da replicare

Continua la storia incomprensibile dei tagli alle risorse destinate ai disabili gravissimi. Il comitato 16 novembre chiede di applicare la pratica adottata in Sardegna. Intervista a Marco Espa
Sit-in di protesta contro i tagli al sociale sulla scalinata del Campidoglio

Non è la prima volta che i disabili e i loro familiari sono costretti a scendere in piazza davanti ai palazzi delle istituzioni per chiedere di essere ascoltati. Ne abbiamo riferito con l’intervento di Massimo Toschi sulla “disabilità della politica” a proposito della vicenda dolorosa di Raffaele Pennacchio, il medico campano affetto dalla Sla, deceduto il 23 ottobre dopo due giorni di protesta sotto il palazzo del ministero dell’Economia.

Il caso ha sollecitato un dibattito sull’opportunità di certe forme di protesta, rischiando di oscurare il motivo che ha spinto il governo a paventare una nuova riduzione dei fondi per l’autosufficienza. Ne parliamo, perciò, con Marco Espa, già presidente e tra i fondatori, come genitore, dell'Abc (Associazione bambini cerebrolesi), che è stato invitato dal comitato 16 novembre per far parte della delegazione ricevuta dai sottosegretari all’Economia alle prese con la definizione della legge di stabilità. Espa attualmente fa parte del gruppo consiliare del Pd nella Regione Sardegna.

Come vi spiegate questo accanimento dei tagli sui fondi sociali? E cosa comporta, nella vita quotidiana di un malato o di una persona con grave disabilità?
«Si tratta di una tendenza cominciata nel 2010. Mentre nel 2009 le Regioni avevano avuto assegnazioni pari a un miliardo e 100 milioni di euro, si arriva oggi, dopo anni di tagli (il livello più basso raggiunto nel 2011 con 170 milioni di euro!) a prevedere un finanziamento nella legge di stabilità di soli 250 milioni di euro. Roba da brivido. Il fondo per i non autosufficienti è passato dai 400 milioni di euro del 2009 allo zero del 2011 e poi reintegrato, nel 2012, grazie alle battaglie di Usala, Pennacchio, della Fish (Federazione italiana) e di tutti noi. Una follia. La Sardegna, da sola, investe 140 milioni di euro di fondi propri, una scelta politica importante. Il comitato 16 novembre onlus richiede servizi personalizzati e co-progettati sul territorio e non il finanziamento di strutture dove portare le persone a vivere».

Non vi sembra strano che dobbiate scendere in piazza direttamente senza una vera rappresentanza politica capace di condividere e promuovere le ragioni della giustizia sociale?
«Ci sono due aspetti: innanzitutto è una vergogna nazionale che le persone con gravissima disabilità siano costrette a scendere in piazza per salvaguardare i propri diritti. Poi, ricordiamoci comunque, che anche le persone con disabilità sanno e vogliono rappresentarsi da sole e con i loro familiari. C'è una coscienza civile e politica (con la P maiuscola) che va molto al di là di tutti i generici qualunquismi contro le classi dirigenti del Paese: le persone con disabilità portano, spesso, proposte concrete, applicabili, testabili, che fanno risparmiare le casse pubbliche, come ha fatto il comitato 16 novembre partendo dall’esperienza della Sardegna». 

Nell’incontro con il governo avete presentato, infatti, il modello sardo come esperienza esemplare da replicare a livello nazionale. Ma come può l’amministrazione di un territorio che porta duramente i segni della crisi economica a rappresentare un modello da seguire?
«L’industrializzazione è fallita, ma i servizi alla persona non sono delocalizzabili e la battaglia dei diretti interessati è stata fortissima. Il “modello Sardegna” nasce nel Duemila, anno di attuazione della Legge 162/98 in Sardegna (la legge è nazionale, ma solo da noi viene applicata così), dopo una grande battaglia delle persone con disabilità gravissima e delle loro famiglie, stufe di non avere assistenza o averla calata dall’alto; è un modello incentrato sulla personalizzazione degli interventi e coprogettazione tra la persona con disabilità e l'istituzione, una forma di co-gestione virtuosa. Si è partiti da situazioni di persone con gravità estreme dove l'unica risposta era strapparle dalle famiglie e dalla propria comunità per metterle in istituto. Le famiglie dei “gravissimi” invece volevano migliorare la qualità di vita dei loro figli con disabilità e la loro, con servizi “su misura”, dei quali volevano essere co-decisori, puntando al pieno sviluppo del loro potenziale, valorizzando la risorsa famiglia, il territorio e la comunità, per una società inclusiva, e combattevano contro la discriminazione e la segregazione». 

Cosa cambia in concreto con questo approccio?
«Per la prima volta le famiglie interessate ai piani personalizzati, quindi non ad interventi monetari o a servizi calati dall’alto, diventano interlocutori dell’ente pubblico, mobilitano le loro organizzazioni, esperti, collaboratori, per garantire il pieno coinvolgimento dei diretti interessati all’erogazione dei servizi a loro destinati. Un punto di forza è rappresentato dal fatto che le persone con disabilità hanno il potere di scelta su come impostare il progetto e degli operatori professionali, formati, necessari al loro sostegno e al progetto di vita, sempre relazionandosi e rendicontando al Comune di appartenenza. Il vantaggio per la spesa pubblica è enorme. Un ammalato di Sla, ricoverato in un reparto rianimazione costerebbe anche un milione di euro l’anno, contro il finanziamento di circa 50 mila euro l’anno per il progetto domiciliare, che si rivela di grande soddisfazione per l’utente. Si risparmiano, così, ben 950 mila euro con riferimento a un caso singolo! Per le altre degenze si è calcolato che il ricovero improprio in una Rsa costa da 3 a 6 volte, considerando la sola spesa sanitaria, rispetto ai progetti domiciliari del “modello Sardegna”, che possono essere finanziati appunto da 5 a 50 mila euro a persona per i casi più gravi».

Cosa comporta complessivamente questo tipo di intervento?
«Solo alcuni numeri per capire il fenomeno; siamo partiti nel Duemila con 123 progetti personalizzati e un investimento di poco più di un milione di euro: oggi sono oltre 36 mila con una spesa, totalmente regionale, di oltre 117 milioni di euro, oltre 25 milioni ulteriori impegnati nel progetto “Ritornare a casa” previsto per duemila altri casi gravissimi. In tal modo si sono creati circa 15 mila posti di lavoro sul territorio, con il risultato dell’emersione del lavoro nero, precedentemente diffuso invece in questo settore. Anche la classe politica, di destra e sinistra, ha capito, negli anni, che si risparmiava davvero riconoscendo il rispetto dei diritti umani e offrendo servizi di reale sostegno alle famiglie. Un esempio che i malati gravissimi delle altre Regioni, come Raffaele Pennacchio, hanno chiesto di esportare anche da loro».  

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