Di nuovo Modi

La più grande democrazia del mondo affida al premier uscente il suo destino per la seconda volta. Le incognite dei risultati di un voto complesso.
Modi, India Foto Ap

Anche l’India dimostra che i populismi non hanno confine e che sono una realtà trasversale nella geopolitica mondiale. Surendra Modi trionfa di nuovo, nonostante la sconfitta subita in importanti elezioni regionali solo alcuni mesi fa. Il suo partito, il Bharatya Janata Party (Bjp) ha stracciato la concorrenza ed ha ottenuto un consenso plebiscitario. Modi è il terzo primo ministro uscente a essere rieletto con un mandato del genere. Nelle 17 elezioni svoltesi fino al 2019 nella più grande democrazia del mondo, era successo solo al Pandit Nehru, primo ministro all’indipendenza del Paese, e alla figlia Indira Gandhi. Questa volta Modi aveva di fronte, rispettivamente, i loro pronipoti e nipoti, Rahul e Priyanka, che poco hanno potuto con lo strapotere del ciclone Bjp. Così il partito storico del Congresso resta all’opposizione – come era stato cinque anni fa – in un Lok Sabha, il parlamento indiano, dominato dalla maggioranza assoluta del Bjp. Modi ed il suo partito hanno ottenuto 343 seggi con la coalizione ed esattamente 302 da soli. La maggioranza era fissata a 272. Il loro, dunque, è un vero strapotere che durerà ancora un quinquennio. Alla fine di questo mandato saranno passati dieci anni di governo incontrastato di fondamentalismo e populismo indù e sarà interessante vedere che India ne uscirà.

Dopo cinque settimane di tornate elettorali divise per gruppi di Stati, ieri si sono aperte le urne contenenti i voti e si è subito capito che gli exit poll avevano avuto ragione, nonostante il Congresso e gli altri partiti di opposizione avessero invitato tutti alla calma. Il conteggio dei voti è iniziato alle 8 (ora locale) ed in serata era ancora in corso. Ma i numeri non lasciavano alcun dubbio: Modi sarà premier per la seconda volta e governerà da solo per altri cinque anni. Sul suo profilo Twitter,  ha voluto congratularsi con alcuni alleati che hanno fatto corsa con il suo partito a livello di vari Stati.  Alla fine, ha dichiarato la vittoria affermando: «Insieme cresciamo. Insieme prosperiamo. Insieme costruiremo un’India forte e inclusiva. L’India vince ancora!».

La cocente sconfitta del Partito del Congresso, per altro inattesa, almeno in questi termini e con questi numeri impietosi, è senza dubbio legata all’incapacità del partito di esprimersi in modo efficace e credibile di fronte agli elettori. Ovviamente non è stato sufficiente lanciare i due figli di Rajiv e di Sonia per assicurarsi la vittoria. Inoltre, la questione del Kashmir riesplosa recentemente – nel febbraio scorso –  con un sanguinoso attentato che ha mietuto vittime fra militari indiani e che è stata, poi, vendicata da un’azione di commando indiani all’interno del territorio pakistano, ha dimostrato ancora una volta che la questione del rapporto con il Pakistan è sempre un’arma vincente per mostrare al Paese chi è davvero l’uomo forte da votare; è stata la carta che, dopo le sconfitte nelle elezioni regionali, ha garantito a Modi ancora una volta il controllo e la credibilità dell’opinione pubblica. In effetti, per tutta la campagna elettorale, Modi ha esasperato i toni facendo temere una nuova guerra tra i due Paesi. Oggi gli analisti ammettono che mantenere alta la tensione e presentarsi come “l’uomo forte che garantisce la sicurezza” è stata una strategia vincente.

Da parte sua, il leader dell’opposizione, il presidente del Partito del Congresso, Rahul Gandhi, ha ammesso la sconfitta e si è congratulato con i vincitori. Alla Bbc il portavoce Jaiveer Shergill ha dichiarato che i risultati sono arrivati «come una batosta. Non ci aspettavano questa sconfitta. Non siamo stati buoni comunicatori delle nostre promesse elettorali».

Al contrario dei due giovani sconfitti, rampolli di famiglia, come vuole la tradizione del Partito del Congresso, Modi proviene da origini povere. Con il padre era un chaiwala, venditore di tè alla stazione ferroviaria di Vadnagar, nello Stato del Gujarat, di cui divenne primo ministro nel 2001 e dove rimase fino al 2013 per lanciarsi poi nell’agone politico nazionale. Non è da escludere che le sue origini costituiscono una fonte di simpatia di fronte all’opinione pubblica indiana, insieme a una invidiabile retorica politica che gli permette di fare colpo sulle folle e sull’opinione pubblica nazionale, in particolare sull’ethos degli indù. Dopo gli scontri fra indù e musulmani che fecero più di mille vittime nello Stato del Gujarat, Modi fu puntato a dito come un nemico delle minoranze; ma, allo stesso tempo, riuscì a ricostruirsi una grande credibilità presso gli indù in particolare quelli di casta alta ed i commercianti e industriali. Anche la classe media, quindi, lo segue nonostante le ripetute accuse da parte delle minoranze sia musulmana che cristiana di essere controllato dalla Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), una organizzazione politica di stampo paramilitare che rappresenta, insieme ad altri gruppi simili, la vera anima del fondamentalismo indù. Nel corso degli anni, in particolare in questi di governo, ha saputo costruire un consenso ampio e trasversale, coniugando l’agenda a favore dell’Hindutva con quella della crescita economica.

Musulmani e cristiani lo accusano di discriminazione e si parla di un aumento  preoccupante di episodi di intemperanza religiosa che hanno finito per polarizzare la società indiana. Per questo molti speravano in una sua sconfitta. Invece, l’uomo del Gujarat ha vinto in tredici degli Stati dell’unione e si appresta a governare per la seconda volta praticamente senza opposizione. I suoi potenziali oppositori hanno ancora cinque anni prima di misurarsi ancora con lui e, possibilmente, opporgli una agenda politica più coerente e credibile.

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