Destinazione Nuuk

A fine ottobre dell’ormai lontano 1991, una passeggera un po’ insolita aveva preso il volo da Copenaghen alla volta della Groenlandia, la grande isola di giaccio, estesa quanto l’Europa, e popolata solo sulle coste. Quella signora di mezza età, distinta e dall’aspetto fragile, almeno in apparenza, sembrava avere poco in comune con gli altri viaggiatori, funzionari del governo danese, oppure escursionisti, emuli di Amundsen e di Nobile, appassionati degli sport estremi. Anche la stagione prescelta non era delle più azzeccate. Lasciata alle spalle l’estate, ci si avviava infatti verso il periodo più freddo dell’anno. “Il volo da Copenaghen – ricorda Paula Bekooy, poiché di lei si tratta – era stato piacevole. La vista era emozionante, man mano che l’aereo, planando verso l’aeroporto, si abbassava sul mare ghiacciato ingombro di iceberg. La sua superficie era immobile. Tutto sembrava fermo, anche il tempo”. Atterrarono a Kangerlussuak, al limite del fiordo omonimo. Ed ecco la prima sorpresa: “La Groenlandia viene spesso associata al freddo, ed è vero. C’è tuttavia tantissima luce e, sebbene in alcuni periodi regni il buio polare, non è mai completamente buio”. Da lì, in elicottero, proseguì per Nuuk, il capoluogo amministrativo e politico dell’isola che, pur essendo legata alla Corona danese, gode di un’ampia autonomia. “Non vi vidi però niente di paragonabile alle nostre città europee. Con i suoi 14 mila abitanti, è considerata la più piccola capitale del pianeta. In compenso, vi si trova l’ufficio delle poste più grande del mondo: lì arrivano da ogni parte le lettere indirizzate a Babbo Natale!” Quella sera, Paula non riuscì a prendere sonno nel caldo sacco a pelo che per sua fortuna aveva portato con sé. Tutto era accaduto così in fretta! Appena qualche mese prima, all’inizio dell’estate, nel suo confortevole appartamento da single pieno di libri e di dischi di musica classica, in un tranquillo quartiere di Amsterdam, l’aveva raggiunta una telefonata. “Ti andrebbe di fare un viaggio con me in macchina sino ad Oslo?”. Era Lella Sebesti, dei Focolari. Paula è stata infatti tra i primi in Olanda ad aderire al movimento. “Accadeva non di rado – prosegue – che Lella mi proponesse di accompagnarla nei suoi viaggi per incontrare i vari gruppi sparsi in Olanda, in Danimarca, in Svezia e in Norvegia. Il discorso cadde sulla Groenlandia, dove era difficile soggiornare per le condizioni climatiche. “”Mi piacerebbe poterci andare”, le dissi ad un certo punto, quasi senza pensarci. “Forse – mi sentii rispondere – sei tu la persona giusta”. Sembrava un bel sogno, ma irrealizzabile, almeno in quel momento: difficilmente, infatti, avrei potuto ottenere un congedo temporaneo dalla scuola, senza un motivo adeguato”. Invece, ripreso l’anno scolastico, accadde l’imprevisto. Paula iniziò a soffrire di una forte emicrania. “Non avevo quasi mai avuto mal di testa – dice -. Invece, puntualmente, ogni fine settimana dovevo stare a letto e al buio. I medici furono drastici: dovevo lasciare subito l’insegnamento. Così, qualche mese dopo, partii”. Nel chiarore di quella prima notte polare – la luna era alta nel cielo, rischiarando a giorno le strade deserte e silenziose – Paula andava col pensiero agli avvenimenti appena trascorsi. “Mi sentii afferrare da un senso di sgomento: che ci facevo lì, a migliaia di chilometri dalla mia città? Eppure, stranamente, mi pervadeva una pace, una gioia interiore che non mi avrebbe più lasciato. Per me, una conferma che Qualcuno mi voleva proprio lì. Che tutto era condotto dalla sua mano, e che spettava a me scoprirlo, attimo dopo attimo”. Aveva trovato una sistemazione provvisoria in un ostello: urgeva cercare casa. Guardava quelle abitazioni che, simili per forma e struttura, le ricordavano le case dei giochi dei bambini. Cubi di legno dipinto di giallo, rosso, blu, azzurro, verde. Sui brillantissimi colori spiccava il bianco puro delle finestre ed il profilo dei tetti rigorosamente grigi. Tinte molto vivaci, per contrastare il ghiaccio, il cielo, il pallore della terra che si esponeva spoglia al tiepido sole. Ma era difficile trovarne una libera: come la immancabile muta dei cani da slitta, ogni famiglia inuit possedeva la sua piccola abitazione di legno. Alla fine dell’inverno, Paula trovò una casetta rossa ai margini di un prato. Iniziò a fare conoscenza con i vicini di casa, che a scuola avevano imparato il danese, ma parlavano una lingua a lei sconosciuta. “Appresi, ad esempio, che in questa difficile lingua esistono ben sedici modi di dire “neve” (secondo le stagioni, la durezza, la morbidezza), e quaranta termini per dire “bianco”. E, con stupore, mi resi conto che in lingua inuit non esiste la parola guerra. Naturalmente, ciò non significa che essi non abbiano conosciuto i conflitti. Ma avevano sperimentato il vantaggio per comporre i dissidi con una vena di comicità che li contraddistingue”. Paula si rese conto che non era facile entrare in sintonia con un popolo che per millenni è vissuto nell’isolamento, imparando a non aver bisogno di niente. Gli incontri con i concittadini di Nuuk, in chiesa o al supermercato, non aprivano alla confidenza. Sicché fu con grande sorpresa che un giorno sentì bussare alla sua porta. Erano due bambine, Elisa e Sonja, che abitavano non molto lontano. “Proprio come all’inizio della primavera, quando nonostante la temperatura ancora molto rigida, d’improvviso la natura si rianima, i ruscelli cantano ed i prati si ricoprono di un manto fiorito, così, quando meno me lo sarei aspettato, iniziò una nuova stagione anche nei rapporti con la gente del posto”. Con l’entusiasmo degli anni giovani, Paula mise a disposizione di quelle bambine la sua esperienza di insegnante. Conosceva tanti giochi e canti: sarebbero piaciuti di sicuro anche a loro. Il teatro dei burattini le mandava in visibilio, e si entusiasmavano nel fare le scenette sulla vita di Gesù. Erano infatti luterane, come la maggior parte degli inuit della Groenlandia. Paula raccontava loro la vita e le esperienze dei ragazzi del movimento che conosceva, e le mise in contatto con quelli danesi. Venne il momento, nel 1998, di fare insieme un primo viaggio in Danimarca per conoscerli di persona. E quando, nel maggio scorso, si annunciò la prospettiva di partecipare al congresso mondiale dei Ragazzi per l’unità a Roma, si accesero l’entusiasmo e la fantasia. Anche in Olanda e in Danimarca iniziò una gara tra tutti per contribuire alla somma necessaria al viaggio. Fu così che all’ombra del Colosseo conoscemmo Elisa e i suoi cinque compagni groenlandesi, assieme alla loro inseparabile Paula. “Sì, non sono più partita”, dice Paula a conclusione del suo racconto, stringato quanto colorito, nello sforzo di trovare le parole adatte per farsi capire. Sì, ho compreso, Paula: la tua vita è lì, tra quella gente di cui hai saputo così meritare la fiducia e la stima. CHI ABITA IN CIMA ALLA TERRA? Kalallit Nunaat, la Terra degli uomini. È il nome originario della Groenlandia – l’isola più grande del mondo, estesa otto volte l’Italia – datole dagli inuit, i suoi abitanti da migliaia di anni. Groenland, in danese, significa invece Terra verde: il condottiero e navigatore vichingo Erik il Rosso, che l’aveva avvistata intorno al 982, ritornato in patria, raccontò di una terra fertile ed accogliente, con l’intenzione evidente di convincere altri a ritornare con lui. Grande il fascino esercitato da questa regione del mondo ancora incontaminata, il cui territorio, che si estende per la maggior parte oltre il Circolo Polare Artico, è ricoperto per l’85 per cento di ghiaccio. Perciò i suoi abitanti complessivi, 57 mila, vivono per lo più sulle coste meridionali dell’isola. Sono in maggioranza inuit, una popolazione proveniente dall’Asia centrale, la cui lingua è formata da una catena di diletti simili tra loro. Sebbene appartenenti a tre continenti diversi, si sono federati tra loro, fondando la Inuit Circumpolar Conference allo scopo, tra l’altro, di salvaguardare la propria identità di popolo e per stabilire una politica dell’ambiente comune alla regioni artiche. Vissuti per millenni nel più totale isolamento, solo nel 1721 il pastore luterano norvegese Hans Egede iniziò la loro cristianizzazione. Oggi possiedono in generale un buon livello di istruzione e grazie a strutture avanzate ed a strumenti di alta tecnologia compongono una società moderna, nonostante la natura difficile.

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