Dentro la t-shirt rivive il campione

Magliette da conservare e magliette da riporre: le sentenze del Mondiale.
Maglia da gioco di David Villa

Milioni di bambini, o di quanti pensano o si illudono di esserlo ancora, in queste settimane, in ogni parte del mondo, nelle periferie degradate di qualche paese del sud, come lungo gli Champs-Élysées, indossano le maglie del loro campione. I campioni “replicati” hanno invaso il pianeta: poco importa che chi ne indossa la “camiseta” non gli assomigli, sia più giovane o più vecchio, più alto o più basso, più magro o più grasso. La maglietta consente di inseguire un’identità. Non è solo segno di devozione, non è solo incapacità di resistere al fascino del marketing.

 

Un mondo globale impone la legge dell’identificazione: io esisto in quanto assomiglio o voglio assomigliare. Non si indossa una maglietta solo come segno di appartenenza, ma perché con un nome sulle spalle puoi gridare al mondo, o almeno a chi ti incontra per strada o sul campetto, “io diventerò come …!” Con un sogno scritto sulle spalle si può andare ovunque.

 

Ora che il Mondiale ha emesso chiare le sue prime sentenze, anche i campioni di riferimento stanno cambiando: molte magliette stanno per finire, scolorite, in fondo al cassetto, altre conquistano la scena, pardon la schiena. In fondo al cassetto, in questo Mondiale, vanno a finire, dimenticate, molte magliette ritenute, fino a ieri, se non eterne almeno intramontabili. Se esci con addosso la maglietta di Cannavaro, Zambrotta, Camoranesi, Henry, Blanco, Veron non sarai fra coloro che andranno al Mondiale del 2014 in Brasile. Se ti copri con quella di Eto’o, Kakà, Rooney, Cristiano Ronaldo, Ribery, magari anche Drogba o Messi, rischi oggi, inaspettatamente, di essere oggetto di sorrisini o di battute irriverenti. Fortemente sconsigliata è quella di Felipe Melo.

 

Oggi ad andare a ruba sono le magliette di nuove stelle emergenti o di gente sconosciuta prima del’approdo in Sudafrica. Fra le prime trovano acquirenti quella rossa (o blu) spagnola con scritto Villa, quella arancione olandese con scritto Sneijder (attenzione alle “i”) o Robben (due fenomeni, scartati troppo in fretta dal Real Madrid per far posto a Kakà e Cristiano Ronaldo, oggi nell’elenco di “chi li ha visti?’”), la celeste uruguagia di Lugano (non il lago, ma il difensore centrale) o del biondo funambolico Forlan, la bianca degli incontenibili tedeschi Klose o Podolski.

 

Fra le seconde fanno tendenza quelle dai nomi inconsueti su un certo colore di maglia: quello di Khedira, tunisino; di Cacau, brasiliano, di Ozil, turco, scritti sulla maglietta della Germania così come quello di Boateng. Poi c’è quello di Prince (il fratello di Boateng che ha scelto di giocare nel paese d’origine del padre anziché in quello di nascita suo e della madre tedesca) sui colori del Ghana. Forte andranno anche la maglietta rossa e gialla di Annan e di Gyan (Ghana), la celeste di Suàrez (Uruguay), la giallo verde di Tshabalala (Sudafrica), la bianca e blu di Donovan (USA) o di Vittek (Slovacchia)… vi siete già scordati che ci ha fatto due goal? E se decidete di mettervi in porta non dimenticatevi che a fare tendenza sono la divisa di Stekelenburg (Olanda) e di (proprio lui?) Muslera, che alla Lazio va per farfalle ed al Mondiale para i rigori.  

 

Peccato che in giro non si trovi quella rarissima di Ji Yun Nam, che ha segnato uno storico goal al Brasile o di Tae Se Jong che piangeva alle note dell’inno: pare che per quelli della Corea del Nord, dopo la batosta (inattesa?) africana si siano aperte le porte dei lager dei lavori forzati. L’invito “andate a lavorare!” l’abbiamo sentito anche da queste parti…ma con ben più soffici conseguenze.

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