Decreto sicurezza bis, una prima analisi

Alcuni punti problematici del testo governativo in discussione alla Camera dei deputati.

Il decreto immigrazione sicurezza bis è entrato in vigore da poche settimane e alla fine di luglio inizierà l’iter per la conversione in legge. Abbiamo già assistito ai suoi effetti con la vicenda delle organizzazioni non governative che salvano persone in mare a cui il Governo non vuole dare spazio nei nostri porti.

Dai fatti di cronaca (la Sea Watch e altre imbarcazioni nelle acque di Lampedusa) raccontati a colpi di tweet ora dopo ora, si capisce la forza repressiva che il decreto vorrebbe avere, quantomeno in tema di immigrazione.

In questa materia prevede infatti sanzioni pecuniarie molto elevate e anche il sequestro delle imbarcazioni per chi viola gli ordini imposti dal ministero dell’Interno; contiene anche un aumento dei poteri del ministero stesso per imporre l’alt alle navi che salvano persone in mare. Le ragioni che hanno portato all’emanazione di questo decreto legge risiedono (a quanto pare, ma non sono solo questi i motivi che lo hanno prodotto) in alcuni teoremi senza riscontri nei fatti.

Il primo teorema riguarda la collusione delle organizzazioni non governative con i trafficanti del Mediterraneo: ma è un teorema falso. Le Procure siciliane hanno ampiamente smentito ogni accordo o contatto tra queste realtà. Allo stesso tempo alcuni studi hanno dimostrato che non vi è alcun rapporto causa-effetto tra la presenza delle imbarcazioni delle ong nel Mediterraneo e la partenza dei barconi dalle coste del nord Africa.

Chi vuole e deve imbarcarsi, lo fa in ogni caso, a prescindere dalle ong. Tuttavia – secondo il ministro dell’Interno – le organizzazioni governative vanno fermate ad ogni costo. Non importa se intanto altre decine di persone sbarcano in altri modi sulle nostre coste. Ma allora: si vuole intervenire sulle persone che giungono irregolarmente in Italia o su cosa? Dal decreto non abbiamo risposte esplicite.

Di certo abbiamo centinaia di morti in mare di cui perdiamo ogni traccia.

Il secondo teorema è che la Libia sia un Paese “sicuro”, termine che in senso tecnico significa un luogo democratico, in pace, che rispetta i diritti civili e le libertà fondamentali. Ma anche questo teorema è smentito dalla guerra in corso, dai recenti report dell’UNHCR, dal bombardamento su un “centro di detenzione” per immigrati (in Libia) che ha ucciso circa 60 persone. Anche questo teorema quindi è falso. Nessuno vuole tornare in Libia tra coloro che riescono a fuggire da lì.

Un ulteriore teorema sottostante al Decreto immigrazione – sicurezza bis è che con la forza si possa ottenere tutto. Da una parte questo potrebbe essere anche vero, la nostra forza (mentale, fisica, caratteriale) può giocare un ruolo importante nel raggiungimento di alcuni obiettivi. Ma per governare un Paese (per esempio il nostro) e per capire e governare fenomeni sociali molto complessi e non occasionali (per esempio la mobilità umana, le migrazioni, le disparità economiche nel mondo, i cambiamenti climatici) la forza serve solo in parte. Soprattutto se la forza vuole imporsi in modo unilaterale e secondo logiche poco condivise.

Nei giorni scorsi sono stati presentati alcuni emendamenti che inasprirebbero ulteriormente le sanzioni già previste nel decreto. Quindi ancora esibizioni di muscoli che, lo abbiamo visto di recente con la vicenda di Carola Rakete, servono a poco dinanzi alle ragioni  del diritto.

Purtroppo non pare che l’attuale Parlamento sia all’altezza degli eventi epocali che stiamo attraversando e quindi non riuscirà a incidere in modo significativo sull’attuale testo del decreto per modificarlo radicalmente.

Ma una bella e importante porzione di cittadini sta prendendo coscienza della brutta china su cui stiamo scivolando e comincia a suonare l’allarme e a dare voce ad altre idee e prospettive.

La bellissima lettera delle monache claustrali italiane – pubblicata da Avvenire domenica scorsa – è uno dei tanti esempi di impegno civile che arriva anche da luoghi impensati a cui – in qualche modo – possiamo appartenere per fare, se vogliamo, la differenza.

 

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