Dalla crisi si esce cambiando modo di pensare

L’opinione di un sindacalista. Per una scelta condivisa si deve partire dalla redistribuzione delle ricchezze e dal contrasto dell’illegalità
Lavoro

 Le misure anticrisi elaborate dal governo italiano, per rispondere all’ultimatum giunto dalle istituzioni europee, mostrano l’attualità di un detto di Albert Einstein: «Abbiamo bisogno di un nuovo modo di pensare per risolvere i problemi causati dal vecchio modo di pensare». Se, infatti, siamo arrivati al momento più grave del nostro Paese dalla fine della guerra mondiale non sarà perché stiamo seguendo una rotta sbagliata?

 

 Il maxi emendamento alla legge di stabilità, deciso nella notte della vigilia del vertice G20, continua a non prevedere alcuna imposta patrimoniale ma un piano di dismissione del patrimonio pubblico, cioè di tutti. Rendiamoci conto che si tratta di beni dello Stato messi sul mercato per fare cassa e che non potranno più essere recuperati, mentre ci si ostina a non voler colpire le enormi ricchezze dei grandi possidenti. Viene da domandarsi: che fine ha fatto il previsto effetto positivo sull’economia da parte dei capitali rientrati con lo scudo fiscale? Erano soldi trasferiti all’estero contro la legge e fatti rientrare in maniera anonima con una tassazione minuscola del 5 per cento contro il 23 per cento medio del lavoro dipendente.

 

 La misura dell’aumento dell’Iva, già adottata, è anche questa esemplare perché si potevano colpire selettivamente i beni di lusso e quelli da disincentivare, invece di agire sui beni di prima necessità.

 

 Non basta, perciò, chiedere solo una classe politica eticamente credibile, in grado di resistere ai poteri forti, ma di condividere un nuovo modello di sviluppo fondato su nuovi modelli di vita. Per dare un segnale reale di discontinuità bisognerebbe adottare altre direttive, come la reintroduzione del reato di falso in bilancio e una decisa lotta all’evasione con strumenti efficaci sulla tracciabilità del denaro, compresi gli assegni e di ogni operazione finanziaria, arrivando a chiedere di allegare copia dell’estratto dei conti correnti nella dichiarazione dei redditi.

 

 Bisogna, inoltre, far in modo che non si lasci nessuno spiraglio a qualsiasi forma di condono che oltre a premiare i “furbetti” e i disonesti minerebbe alla base la credibilità della politica, ma anche di qualsiasi lotta all’evasione e all’elusione. In un Paese come il nostro, che è sotto attacco da parte dell’economia criminale e della corruzione che infetta la pubblica amministrazione, urge investire sulla legalità a cominciare dalla confisca dei beni dei corrotti.  

 

Stranamente viene messo sotto attacco l’articolo 41 della Costituzione che si rivela, invece, quanto mai attuale nel ribadire come la libera attività economica non possa produrre profitto compromettendo il futuro delle persone, dei territori e dell’ambiente. E il ruolo dello Stato nell’economia, in questa fase, diventa quanto mai essenziale per contenere questa rincorsa al risultato di breve periodo da parte di un tessuto produttivo inaridito dal capitalismo finanziario.

 

In questo senso, non si può cedere all’ossequio della forma introducendo il pareggio di bilancio nella Costituzione. Si tratterebbe di una decisione destinata a condannare il Paese ad un declino irrecuperabile perché ci sono investimenti necessari finalizzati a contenere crescenti e certe spese future (dissesto dei suoli, difesa dei beni comuni e del patrimonio culturale, edifici pubblici fuori norma, inefficienza energetica dei beni pubblici, condizioni disastrose della scuola pubblica, infrastrutture ) che non possono essere considerati, da parte dei banchieri, alla stessa stregua delle spese correnti.

       

 Non è vero, perciò, che manca il lavoro. Manca la disponibilità e la possibilità di retribuirlo. Basta andare in giro in una città per vedere quante attività indispensabili per la comunità rimangono da fare. Si è creata una frattura tra il denaro, il suo uso, l’avidità di profitti senza limiti e il lavoro. L’occupazione non si crea rendendo più semplice l’espulsione dei lavoratori. Quale utilità sociale e di sistema si può raggiungere se, allo stesso tempo, si licenziano i padri, si alza l’asticella dell’età pensionabile e si precarizzano sempre più i figli? E la cassa integrazione e gli assegni di disoccupazione, quando previste, non gravano sulla fiscalità generale? Arriviamo perciò al paradosso che si preferisce retribuire il non lavoro piuttosto che il lavoro.

 

Bisogna stare attenti nell’assecondare gli appetiti del capitalismo finanziario perché, alla fine, si arriva a snaturare l’idea stessa di Europa che vuol dire, invece, cultura dei diritti dei popoli per l’accesso a scuola, sanità, previdenza, assistenza sociale e difesa dei beni comuni. Sono questi i punti di forza che i governi europei dovrebbero ribadire e portare in tutti i consessi internazionali, come il G20.  

          

Su questa linea si può riconoscere il senso della mobilitazione sulla tassa per le transazioni finanziarie, finalizzando gli introiti per finanziare progetti di inclusione sociale e di aiuti allo sviluppo dei paesi impoveriti. Allo stesso tempo, è quanto mai necessaria una “carbon tax” a favore delle energie rinnovabili e del risparmio energetico. Si tratta di indirizzi di politiche industriali capaci di assicurare uno sviluppo sostenibile e duraturo e quindi salvaguardare una sana e buona occupazione.

            

Insomma non si può insistere sulla crescita, che appare ormai sempre più come una chimera, senza prima non aver messo mano ad una redistribuzione della ricchezza in un Paese, e in un pianeta, che rimane diseguale.

 

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

Tonino Bello, la guerra e noi

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons