Dal curare al prendersi cura

La relazione col malato, soprattutto se in condizioni di disabilità, non è solo una questione etica: medici e pazienti ne hanno discusso insieme, in una giornata di alta formazione all'Università di Padova
laboratorio dal limite il di più

Finalmente – direbbe qualcuno – a parlare di disabilità sono i disabili: è quanto è accaduto lo scorso 7 ottobre a Padova. Il titolo dell’evento, a dire il vero, poteva apparire quantomeno nebuloso: “Comunicazione emotiva, relazione terapeutica e disabilità: il limite come diapason di sintonizzazione sull’essenziale”. Eppure questo non ha scoraggiato i circa 120 partecipanti alla giornata di alta formazione organizzata dall’Università, con la collaborazione dell’Azienda ospedaliera e Azienda ULSS di Padova, tanto che numerose iscrizioni hanno dovuto essere rifiutate. La giornata è la prima di una triade, a conclusione del corso di perfezionamento in “Comunicazione emotiva e relazione terapeutica, di aiuto o di cura, nelle professioni sanitarie e sociali”, istituito di recente dall’Università di Padova tramite una collaborazione interfacoltà (tra cui quelle di Medicina, Psicologia, Pedagogia e Sociologia) e con realtà esterne (come la Fondazione cancan e la Fondazione Lanza).

 

La giornata si proponeva, come delineato dal prof. Mino Conte, docente di pedagogia generale e sociale, di elaborare un «nuovo umanesimo scientifico», che riscopra «l’unitarietà della persona prima delle sue manifestazioni esterne, come l’essere sano o malato». Il presupposto per andare «oltre l’asimmetria insita nel rapporto medico-paziente», grazie ad un «patto di cura che sia un patto di fiducia reciproca». Ma perché si è giunti a questa dicotomia tra competenze scientifiche e capacità di prendersi cura dell’ammalato nella sua interezza? Secondo Tiziano Vecchiato, della Fondazione Zancan, «la persona ammalata nel contesto di cura non c’è: c’è solo la sua patologia». L’errore che commettiamo ormai da anni è quello di «affrontare il problema definendolo una questione etica, non professionale, e lasciandolo alla coscienza del singolo invece di inserirlo nella formazione e nella quotidianità». Il discorso, peraltro, non va limitato alla cura delle persone disabili o diversamente abili che dir si voglia (due definizioni peraltro contestate): «Dobbiamo far uscire dalla riserva indiana il tema dei servizi per la disabilità – ha proseguito Vecchiato – perché non possiamo pensare di occuparcene in maniera appropriata se non lo sappiamo fare nemmeno con i “normodotati”. Un nuovo approccio alla relazione con il malato deve essere a beneficio di tutti».

 

Una nuova relazione con il malato di cui gli operatori della sanità sono i primi a sentire il bisogno: «Di fronte a ritmi di lavoro sempre più pesanti e al sentirmi “spremuta” – afferma Rosalia, infermiera e partecipante al corso – sento la necessità di darmi gli strumenti perché il mio lavoro possa continuare a svolgersi per il bene mio e degli altri». Anche la sua collega Claudia concorda sul fatto che «con un nuovo approccio alla comunicazione col paziente, molti dei problemi attuali non ci sarebbero»; una comunicazione che esige formazione perché, commenta Giulia, sociologa, «è un processo estremamente delicato».

 

Ad illustrare in prima persona che cosa questa nuova dimensione significhi sono stati proprio i “diversamente abili”. La psicologa e scrittrice Marilena Rubaltelli, dalla sua sedia a rotelle, si è soffermata soprattutto su un necessario “rovesciamento di prospettiva” che parte dal linguaggio: «La domanda che il medico si pone non deve essere “qual è la diagnosi?”, ma “chi ho davanti?”; non “qual è la terapia?”, ma “come posso aiutare?”». O ancora: «La persona disabile non è “diversa”, è “differente”; non ha dei “limiti”, ma delle “potenzialità da sviluppare”». Alla sua voce è seguita quella di Chiara M., infermiera a riposo e scrittrice, che ha testimoniato con parole toccanti come il passare da operatore sanitario a paziente le abbia aperto una nuova prospettiva su quali siano le reali esigenze del malato, e soprattutto sull’importanza dei segnali anche involontari che il medico e l’infermiere mandano: «Ricordatevi che siete osservati – ha ammonito – e che molto spesso tutto ciò di cui il paziente ha bisogno è sentire che siete presenti».

 

Dopo una digressione “tecnica” tenuta da Renzo Andrich, coordinatore della ricerca sulle tecnologie assistive del Polo tecnologico della fondazione don Gnocchi di Milano, sulle possibilità offerte dalla moderna domotica e dalla messa in rete degli ausili disponibili per le persone con disabilità tramite il portale italiano Siva e quello europeo Eastin, la parola è tornata alle esperienze di vita. È stata la volta del gruppo trentino e veneto dei laboratori “Oltre il limite il di più” (nella foto), già apparso sulle pagine della nostra rivista. Già da quattro anni si incontrano, operatori sanitari e disabili, per scoprire insieme come «la disabilità può offrire una nuova chiave interpretativa dell’esperienza umana». L’incontro tra un mondo della sanità in cerca di un nuovo senso al proprio lavoro, e quello della disabilità spesso confinato nel pietismo invece di essere considerato in maniera attiva, si è tradotto in una fucina di idee e di scambi di esperienze in vista di un cambiamento culturale che è «un dono per tutti, non solo per chi ne è direttamente coinvolto». Perché, come ha confermato Claudio, «solo se comunico la mia sofferenza questa diventa un bene maggiore per tutti». Così Maria Daniela ha comunicato cosa sia stato per lei, invalida ad un braccio in seguito ad un incidente, crescere due figlie; o, nel caso di Claudio, come i suoi limiti a lungo ignorati siano stati «la soglia per uscire da me stesso». Ma non è mancato il punto di vista dei medici, come quello di Giovanni Guandalini, che ha raccontato come abbia rovesciato la sua prospettiva per rispondere realmente ai bisogni di una signora anziana che, di fronte all’impossibilità di usare le proprie gambe, aveva preferito continuare a vivere nel conforto del suo ambiente abituale piuttosto che trasformare radicalmente la sua casa per venire – almeno così sembrava – incontro alle presunte esigenze di deambulazione.

 

Gli interventi sono stati tutti arricchiti dalla discussione in sala, particolarmente viva tenendo conto dell’alta motivazione dell’uditorio: «C’è una partecipante – ha riferito Valter Giantin, coordinatore scientifico del corso – che viene ogni settimana a Padova da Catania per seguirlo, perché non ne ha trovati altri di simili». Per questo verrà riproposto il prossimo anno, con l’auspicio che questo tipo di formazione entri nei curricula universitari. E se, come ha affermato uno dei medici coinvolti, «una volta parlavamo di queste tematiche solo ad una cerchia ristretta, ed ora invece lo facciamo nelle università», la strada è quella buona.

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