Coronavirus, come ne usciremo?

Un’epidemia globale che mette a nudo un sistema da cambiare radicalmente
Foto Ap

L’11 marzo 2020, data spartiacque nella nostra storia, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, segretario generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha dichiarato lo stato di pandemia da Covid-19.

Viviamo in uno stato di crisi senza precedenti, eppure non si tratta di un evento inaspettato. Anzi. Come ha reso noto Nicoletta Dentico (vedi box p. 12), nel settembre 2019, un rapporto della Banca mondiale e dell’Oms affermava che «la minaccia di una pandemia globale è reale. Un patogeno in rapido movimento ha il potenziale di uccidere decine di milioni di persone, devastare le economie e destabilizzare la sicurezza nazionale». Lo aveva previsto già Bill Gates, cofondatore di Microsoft, nel 2015.

Il problema serio è che «siamo più disposti ad ascoltare i “consigli” del Fondo monetario internazionale (Fmi) che le raccomandazioni dell’Oms», afferma Gaël Giraud, direttore di ricerche al Centre national de la recherche scientifique di Parigi, nonché gesuita, autore di un saggio sulla ripartenza dopo l’emergenza Covid-19 pubblicato su La Civiltà Cattolica. Un vero “manifesto”, per nulla fumoso, con proposte concrete da dibattere.

La crisi attuale, secondo Giraud, dimostra che «senza un efficiente servizio sanitario pubblico, che consenta di selezionare e curare tutti, non esiste più alcun sistema produttivo praticabile durante un’epidemia da coronavirus».

Coronavirus. Un mercato “sicut Deus”

Altri sistemi di difesa hanno enormi risorse. Le alleanze militari tra gli Stati promuovono grandi addestramenti come la Defender Europe 20, prevista proprio a marzo e presentata dalla Nato come «la più massiccia esercitazione degli ultimi 25 anni». L’organizzazione atlantica dedica un intero comando alla ricerca medica per proteggere le truppe in caso di guerra batteriologica o epidemie. Il Nato Military Medicine Centre of Excellence organizza, ogni 2 anni, le esercitazioni “Vigorous Warrior”. La prossima è prevista a Roma nel marzo 2021.

Non sono notizie segrete, lo stesso avviene per Cina o Russia, ma non passano in tv all’ora di cena. Eppure, sapere che siamo pronti alla guerra ma non a fronteggiare un’epidemia già prevista, potrebbe invitare a cercare soluzioni alternative davanti alle fosse comuni nel centro di New York, ai camion militari carichi di bare a Bergamo, ai sanitari esposti e colpiti dal contagio perché senza protezioni.

Al di fuori delle Nazioni Unite, oltre ai vertici dei Paesi più sviluppati e industrializzati del G7 o G20, ogni anno si organizzano convention informali a numero chiuso, come Bilderberg o Davos, che radunano i presunti detentori del potere e del sapere con l’intento di indirizzare le sorti del mondo. Con quale criterio?

Giulio Tremonti, ex ministro delle Finanze di vari governi Berlusconi, è un autore di saggi critici verso una globalizzazione affrettata che ha finito per edificare non la pace e il benessere mondiale, ma «il tempio di una nuova religione, basata sul culto pagano e monoteista, totalitario e prodigioso del divino mercato, sicut Deus». Con la conseguenza di trovarci di fronte a «una crisi che già sta producendo sulla parte più povera della popolazione gli effetti economici che in passato erano stati tipici delle epidemie».

Tremonti fa notare che «sono tanti i segni che fanno presagire qualcosa di simile a ciò che è stata Weimar», facendo riferimento, cioè, alla repubblica tedesca spazzata via dal nazismo. Anche Mario Draghi sulle pagine del Financial Times (un vero e proprio appello in inglese al mondo dell’economia che conta) ha invitato a non cadere «negli errori fatali degli anni ’20» in Europa davanti, oggi, a una «tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche».

Secondo l’ex presidente della Banca centrale europea, «è necessario un cambiamento di mentalità, al pari di quello operato in tempo di guerra», riconoscendo «il ruolo dello Stato (che) è proprio quello di usare il bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire». Non c’è altra strada – conferma Gaël Giraud –: «Solo lo Stato può creare nuovi posti di lavoro capaci di assorbire la massa di dipendenti che, quando usciranno finalmente di casa, scopriranno di aver perso il lavoro».

Tornando a Tremonti, è opportuno ricordare che non parliamo di uno scrittore di fantascienza, ma dell’attuale presidente dell’Istituto Aspen Italia, referente di una rete internazionale che raduna gli esponenti principali del mondo produttivo. Basti pensare che Marta Dassù, figura di spicco dell’Istituto, è stata scelta, da poco, tra gli esperti chiamati a sostenere il segretario generale dell’Alleanza atlantica, il laburista norvegese Jens Stoltenberg, nell’elaborazione, entro  il 2020, di «una nuova riflessione strategica».

Coronavirus. La cura, non la guerra

Vista dall’alto, la pandemia induce a usare le parole “guerra” e “strategia”, ma, come precisa in una lettera aperta da Genova l’infermiera Laura Brusasco, «non ci sono eroi, trincee, nemici, martiri, soldati, campi di battaglia. Noi abbiamo scelto la vita, la cura e su questi valori fondanti del nostro lavoro desideriamo rimanere».

Precisando che, se «fossimo in guerra, saremmo già stati dotati delle armi più sofisticate di cui siamo produttori ed esportatori. Non si può dire lo stesso dei dispositivi di protezione di cui abbiamo bisogno». Come testimonia il giornalista Nico Piro, inviato Rai all’ospedale di Bergamo, «guarire è un percorso lungo, richiede una valanga di personale, tecnologia e organizzazione».

Tante storie di questo periodo estremo raccontano la naturale scelta della solidarietà umana davanti alla tragedia. Dalla spesa gratuita per chi è rimasto senza cibo alle aziende che si rifiutano di gettare i dipendenti in strada, come zavorra di una nave che affonda.

Ma il blocco del sistema ha messo in evidenza le diseguaglianze esistenti che colpiscono i più fragili e precari che non possono restare da soli. Possiamo, ad esempio, puntare sulle vendite online, ma solo se esigiamo la massima protezione per i fattorini.

Di sicuro, tuttavia, l’epidemia mondializzata produce una montagna di debito, così come avviene per preparare una guerra e rimediare alle sue distruzioni. Il Fondo monetario internazionale prevede un crollo del 3% del Pil mondiale. Cioè, solo nel 2020, la perdita di 9 mila miliardi di dollari.

Il record negativo appartiene all’Eurozona con la media del -7,5% e l’Italia al -9%. Con effetti che neanche  gli esperti riescono a  immaginare, ma sembra la situazione  ideale per chi ne vuole trarre profitto e speculare. A partire dai capitali mafiosi che l’Italia conosce bene. Abbiamo, cioè, strumenti di inchiesta, che altri Paesi ignorano, sulla diffusione di certi interessi nel mondo della finanza globale.

Che fare? Invece di restare paralizzati dalla paura, è questo il momento del cambiamento radicale. Sappiamo che parlare, retoricamente, di uscita dal capitalismo provoca difese immediate, come avveniva con i sostenitori del mito sovietico.

Nella sostanza, invece, vuol dire, ad esempio, gestire la questione del vaccino per debellare il coronavirus in modo tale che non resti soggetto al monopolio di Big Pharma (il cartello delle multinazionali del farmaco). E si tratterebbe solo di un primo passo, perché le pandemie si annunciano ricorrenti in un mondo messo alle strette dalla crisi ecologica. Ricordiamoci che l’enciclica Laudato si’ di Francesco non è una fantasia da “figli dei fiori”, ma una lettera sull’abisso di un mondo che ha urgente bisogno di cura.

 

Coronavirus. Di chi sarà il vaccino?

Nicoletta Dentico foto archivio
Nicoletta Dentico foto archivio

NICOLETTA DENTICO, giornalista esperta di salute globale

La comunità scientifica e l’industria farmaceutica sono alle prese con la corsa febbrile per la scoperta di vaccini o farmaci in grado di contrastare il virus Sars-CoV-2. Chi avrà accesso a questi prodotti?

A veder le prime mosse delle aziende, non c’è da star tranquilli. In Olanda, Roche si è rifiutata di condividere la formula delle specificazioni tecniche necessarie ai farmacisti ospedalieri per i test Covid, e c’è voluta la dura reazione della stampa e della politica prima che l’azienda si risolvesse a cedere la famosa formula. Gilead Sciences, nota nel 2015 per aver trasformato la terapia contro l’epatite C (Sofosbuvir) in una specie di derivato finanziario (82 mila dollari il costo per 12 settimane di pastiglie), con la scusa del nuovo virus si è inventata un escamotage levantino per Remdesivir, un farmaco candidato alla ricerca perché apparentemente utile a ridurre l’infiammazione dei polmoni nei malati di Covid-19. Ha chiesto alla Food and Drug Administration 7 anni in più di esclusiva del brevetto: l’incentivo riconosciuto per favorire lo sviluppo di farmaci per malattie rare. Proprio il caso di Covid-19!

Occorre determinare con scelte politiche chiare le condizioni di accesso ai vaccini/medicinali se vogliamo sconfiggere Sars-CoV-2. La sfida è aprire un varco nella fitta muraglia di brevetti che privatizzano la conoscenza e rendono impossibile l’utilizzo per gli studi clinici di molecole innovative. Diversi governi hanno annunciato misure di licenze obbligatorie, un dispositivo previsto dal trattato sulla proprietà intellettuale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) che sospenda il regime esclusivo del titolare del brevetto per far produrre ad altri il farmaco richiesto. Si sono mossi in questa direzione Cile, Canada, Germania ed Ecuador. Seguono anche Olanda e Brasile, pare. Ma la partita non se la possono giocare i governi in proprio.

È urgente una misura nuova, su scala globale. Una valida proposta è approdata sui tavoli dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dal Costarica: creare un meccanismo mondiale di messa in comune di tutti i brevetti farmaceutici che servono per Covid-19, sotto il controllo dell’Oms. Questo meccanismo permetterebbe l’uso immediato delle molecole utili alla ricerca di vaccini e terapie, evitando le manovre speculative di Big Pharma. Forse Sars-CoV-2 aprirà il varco alla sperimentazione di nuove piste di ricerca pubblica su scala planetaria.

Coronavirus. Verso un ordine più umano

Mauro Magatti archivio
Mauro Magatti archivio

MAURO MAGATTI, sociologo ed economista

a cura di Aurelio Molè

Papa Francesco afferma che vanno cambiate le strutture della società. In che modo?

La crisi è un’occasione, anche nel dramma e nel dolore che si è creato, per innovare e per cambiare di fronte ai problemi che verranno. Bisogna cambiare l’idea da cui derivano le istituzioni internazionali, la finanza, il lavoro, gli stakeholder che vivono sull’idea che l’economia consiste nell’aumento indiscriminato delle possibilità da raggiungere in base alle proprie capacità, al proprio impegno. Quest’idea produce tutta una serie di problemi. La nostra esposizione al Covid ha colpito tutte le fragilità che sono il portato di una dimenticanza, l’aver immaginato che vivevamo in una strapotenza dove tutti i problemi erano nascosti. E, come dice il papa, chi non era all’altezza diventava uno scarto, una marginalità non più sostenibile.

Qual è la “scommessa cattolica” in questi nuovi scenari che ci attendono?

Riuscire a tradurre ciò che papa Francesco esprime sul piano della dimensione religiosa in una capacità di iniziativa nell’ambito sociale, istituzionale, economico. Esiste una dimensione orizzontale di fraternità, vuol dire non assumere la debolezza come qualcosa di esterno, e una dimensione verticale: significa che non tutto è nelle mani dell’uomo. Per quanto noi possiamo impegnarci, sforzarci, c’è una dimensione di domanda, di mistero, di ricerca, di trascendenza che non è nelle mani di nessuno e va rispettato.

Alcuni analisti prefigurano lo stravolgimento dell’ordine esistente, la crescita delle diseguaglianze e il pericolo per la stessa democrazia. Che ne pensa?

Negli ultimi 20 anni abbiamo avuto due crisi globali. L’11 settembre 2001 con la questione del terrorismo e del rapporto tra le religioni. È ancora nell’agenda dei governi e la paura è diventata un tema centrale dei sistemi politici di tutto il mondo. Poi la crisi finanziaria del 2008. Dopo 12 anni ne paghiamo ancora le conseguenze: la lotta commerciale tra la Cina e gli Usa, le tensioni generate dalle migrazioni, l’inadeguatezza delle risorse che abbiamo per affrontare i problemi. È sicuro che una crisi di questo genere avrà effetti di medio e lungo termine. Tante cose cambieranno. I conflitti e le crisi drammatiche nelle democrazie sono possibilità reali, come lo sono state dopo il 2001 e dopo il 2008. Ma non esiste alcun determinismo. Si tratta di vedere se gli uomini e le donne saranno in grado di superare le difficoltà che derivano da questa emergenza.

 

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