Confronto su Chiara

Professionale e cortese. Ma, soprattutto, stupito. Il personale della sala congressi della Provincia di Milano non credeva ai proprio occhi. Le 650 poltroncine subito occupate, tanta gente in piedi lungo le pareti, i vigili del fuoco a fermare il pubblico nell’atrio d’ingresso per ragioni di sicurezza, duecento persone costrette a restare all’esterno dell’edificio. Difficile immaginare una folla del genere per la presentazione d’un libro. L’appuntamento era stato programmato mesi addietro per fine maggio, ma la scomparsa di Chiara Lubich aveva trasformato la riflessione sul volume della nostra editrice Erano i tempi di guerra – con scritti della Lubich e di Giordani sull’affascinante periodo degli albori dei Focolari – in un avvenimento di maggiore respiro. La morte infatti, ha gettato una vivida luce sul pensiero e sull’opera della fondatrice e ha conferito alla parola di lei (parola detta e parola scritta) una formidabile pregnanza di significato. Il libro era perciò diventato un pretesto – un bel pretesto – per un confronto sulle intuizioni carismatiche della fondatrice trentina. L’operazione era affidata – ecco le ragioni di tanto richiamo – a tre personalità del calibro di Graziella De Luca, Massimo Cacciari e Piero Coda. Ero una ragazza avida di vita – esordisce la De Luca, al fianco di Chiara Lubich sin dalla prima ora del Movimento -. Una mia collega mi invitò ad un incontro. Visto il tipo, le chiesi se si trattava di qualcosa di religioso. Mi rispose di no. Ma ecco venir fuori un tratto della sua personalità: Pensai di andarvi vestita elegantemente, in modo da distinguermi dall’ambiente, che temevo fosse di beghine. Graziella si recò alla sala Massaia, nel centro di Trento. Chiara era di una bellezza particolare. Bruna di capelli, vestiva alla moda con molto gusto. Ma non immaginava cosa la stesse aspettando: Chiara era lì come una di loro. Non sembrava avesse preparato un discorso. Parlò dall’abbondanza del cuore. Le sue parole mi catturarono. Fu il momento magico del mio incontro con lei, che coincise col mio incontro con Dio. L’anima fu invasa da una grandissima luce: era Dio, Amore infinito. Il carisma di Chiara è certamente un carisma d’amore, ma, come lei stessa ha sempre detto, è un carisma anche di luce, precisa don Piero Coda, docente di teologia trinitaria alla pontificia università Lateranense e presidente dell’Associazione teologica italiana. Premette di essere un teologo di parte: Negli ultimi 25 anni ho avuto una frequentazione intensa con la Lubich. Coda ha una personale convinzione: Se è vero che senza il Vaticano II, il carisma dell’unità non avrebbe potuto esprimere quel dono di Dio che ha in sé, è altrettanto vero che, senza il carisma dell’unità, il patrimonio del Vaticano II sarebbe più povero. E poi mette in luce un effetto estremamente innovativo del carisma: Ha generato una mistica che è, costitutivamente, relazionale, interpersonale . Nasce quella che poi Chiara definirà – con una sintesi che ri chiama il castello interiore di Teresa d’Avila, ma va oltre – la mistica del castello esteriore, cioè la dimora di Dio tra gli uomini. La genesi, per Coda, è in Gesù abbandonato, altra intuizione della Lubich. Lì inizia l’incarnazione della luce nella storia. La fondatrice ne dà un’interpretazione folgorante: Gesù abbandonato è la pupilla dell’occhio di Dio sull’umanità, è l’occhio con cui Dio guarda noi e noi guardiamo a Dio. Commenta: Da quel che capisco, c’è un passaggio epocale anche nella storia del farsi carne del cristianesimo nella vita di noi uomini. A questo processo, un contributo verrà anche dalla nuova avventura di cui il teologo torinese è fresco preside, l’istituto universitario Sophia, che inizierà nel prossimo autunno a Loppiano. È stato voluto tenacemente da Chiara e direi che è la sua ultima creatura . L’intento è impegnativo: Fare di questo carisma di luce anche un soffio culturale per il nostro tempo. La fondatrice e Cacciari non si sono mai incontrati, ma il laico filosofo veneziano (e attuale sindaco) non fa mistero di una conoscenza mediata dai libri: Con le sue pagine di alta spiritualità mi sono confrontato tanto spesso. Anche adesso è per me un confronto certo affettivo ma pure intellettuale. E quindi sono un po’ imbarazzato. Un po’, ma non troppo, perché parte subito lancia in resta. Il testo di Chiara che mi ha più impressionato si intitola L’unità e Gesù abbandonato, perché è un nesso paradossale. Ha una sua fondatezza, questo nesso, e lo si spiega perché paradosso non vuol dire irrazionale. Siamo di fronte ad una questione molto importante – affonda subito la lama del suo pensiero -. Siamo di fronte ad un’esperienza mistica molto particolare, ma non stra-ordinaria, perché appartiene ad un filone della mistica europea occidentale, caratterizzata da nomi come san Francesco e santa Teresa d’Avila. Una mistica, cioè, scevra dalla logica dell’identità. Attento al variegato pubblico (molti i giovani), Cacciari adotta per l’occasione un linguaggio accessibile, gli sfugge qualche (pur comprensibile) termine latino e greco, ma trattiene dotte citazioni. La luce della mistica di Chiara non annulla le differenze, non si conclude in un’intuizione intellettuale che contempla la pura unità. Altri grandi filoni della mistica europea sono al fondamento di una filosofia dell’identità. In Chiara, no. Motivo? Credo sia particolarmente la mistica femminile, che resta lontana dalla tentazione dell’identità, di leggere l’uno come unum, come unica identità. Cacciari, con il suo bisturi, distingue Gesù crocifisso da Gesù abbandonato. Tipico di una certa theologia crucis è l’impossibilità di vedere l’unità nel Cristo abbandonato: se vedo l’unità non vedo più la croce, se vedo la croce non vedo più l’unità. E invece questo paradosso è per me assolutamente teologico. Confida: Questo è stato il confronto anche mio con questo tipo di mistica . Risultato? L’unità è vera soltanto se mi unisce all’altro assolutamente separato da me, altrimenti è affinità, è amicizia pagana; siamo ai classici. Va giù dritto: L’unità è la manifestazione del massimo d’amore e d’amicizia. E resta uno degli esempi più clamorosi dell’impossibilità, nonostante tutte le capriole dialettiche che si possono fare, di intendere il cristianesimo in continuità con la filosofia e con la cultura ellenistica. Gesù depone l’anima obbediente nelle mani del Padre – un atto che è il culmine della relazione – nel momento dell’assoluta separazione. Qui Chiara ha colto un punto fondamentale. E ne trae tutta la portata: Il prossimo da amare non è quello che mi sta vicino, come stava vicino l’affine per l’etica aristotelica. Il prossimo è quello di cui posso misurare maggiormente la distanza da me. Dunque nel cristianesimo non c’entra niente l’essere credente o non credente, c’entra il fatto di ragionare: il cristianesimo non ha nulla dell’umanitarismo, della filantropia. Se l’altro è davvero altro da me e se il culmine dell’amore è l’unità, Cacciari dice che il filosofo deve porre una domanda: È possibile tutto ciò o è sovrumano?. In altre parole, questa misura d’amore può diventare una proposta etica per tutti o, se è qualcosa di sovrumano, bisogna fondarla sulla grazia?. Poi, sottovoce: Sono convinto che questo sia stato il dramma interiore di Chiara. È un problema che, come tutti i veri problemi, non ha risposta. Ut unum sint, Che tutti siano uno, è un programma che affascina da tempo il filosofo veneziano. Anche qui c’è un paradosso: come fa l’unum ad essere plurale?. Per Chiara, l’unità non è il luogo in cui le differenze scompaiono. Quella è l’unità dell’Anticristo, come ha detto Solov’ev. L’Anticristo vuol fare di tutti uno e i tutti non ci sono più. Non ci sono più i musulmani, non più gli ebrei. Una sola grande chiesa universale per il tutti uno. Questa è una logica imperiale: diventiamo tutti uguali. Invece, in Chiara quei tutti rimangono plurale e nel colloquio tra loro sono uno. Questa è la quintessenza della logica trinitaria e di una logica personalistica. In sala non vola una mosca. Dovete sentire tutta la pregnanza dell’espressione Ut unum sint. Significa che i tutti non vengono annullati in un linguaggio comune, ma si riconoscono e si intendono nella loro diversità. Ognuno di noi ritorna sé attraverso il colloquio con l’altro, e non torna a sé se non c’è l’altro con cui colloquiare. Ma ecco di nuovo il quesito cruciale: Questa unità è eticamente possibile, o anche qui ci vorrà gratia Dei, anche qui soltanto un dio ci può salvare?. Il filosofo è grato a Chiara per i due termini della questione – unità, Gesù abbandonato -, ma ancor di più per la congiunzione e che li lega. Non l’unità o Gesù abbandonato, ma l’unità e Gesù abbandonato. Anche in Paradiso l’unità sarà plurale, come ha riconosciuto perfettamente Dante Alighieri . All’inferno ognuno ha la sua faccia, conserva le sue caratteristiche, ognuno ha la sua destinazione specifica. Altrettanto in Paradiso, ma, a differenza dell’inferno, più nessun risentimento, più nessuna invidia, più nessun odio, ma riconoscimento pieno e perfetta gioia per la situazione dell’altro. Cacciari tace. Pausa. Chiude: Questa è vita vera, questo è Paradiso. Verrà domani, dopodomani. Qui non c’entra più il fatto di essere credenti o non credenti. Come potrebbe essere concepibile vita vera se non così?.

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