Con l’Africa nel cuore

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Pier Giorgio Turco, cinque figli e undici nipoti, una vita passata a curare le malattie degli occhi, è piuttosto stringato nel narrare di sé prima del pensionamento. E al contrario non la finirebbe più di diffondersi sulla sua attività dopo, a favore di un’Africa della disperazione, della morte e della miseria che, da medico, si sente in dovere di assistere e curare. Recandovisi di persona a più riprese, ma anche organizzando invii di attrezzature mediche donate da quanti colleghi e amici questo settantacinquenne dal cuore giovane riesce a coinvolgere col suo entusiasmo. Lo incontro nella sua casa a Salerno, dove vive con la moglie Marina. In Africa – comincia a raccontare – andai per la prima volta nell’agosto del 1993. Un amico missionario saveriano, di ritorno dal Congo, mi aveva fatto una esposizione della povertà e della disperazione incontrate quasi incredibile, tanto era lontana dalle situazioni in cui normalmente mi imbattevo. Allora, pur fra incertezze e interrogativi, accompagnato da mia moglie presi l’aereo, diretto alla regione dei Grandi Laghi. Quando arrivammo ad Uvira, nel Nord Kiwu – continua -, mi resi conto che la realtà era ancora più cruda di ogni descrizione…. Da allora (a parte una breve puntata presso un ospedale militare di Zagabria), nel continente africano Pier Giorgio ci torna in media quattro volte l’anno, appoggiandosi ora a delle comunità religiose, ora a qualche Onlus. Oltre che in Congo, ha svolto missioni in Camerun e in Liberia (dove ha lavorato in un lebbrosario), in Ghana e in Burkina Faso. Ma soprattutto in Mozambico, dove finora si è recato dodici volte, prestando servizio presso l’ospedale di Quelimane nella regione Zambesia. È una grande struttura capace di accogliere tra 350 e 400 persone – spiega il medico salernitano -. L’attrezzatura per la sala operatoria e quella per l’ambulatorio mi sono state donate dai governatori e da amici del Rotary. Ma poi ci sono tantissimi altri che mi hanno fornito aiuti, perfino bambini delle elementari! Tutti doni impiegati in parte per le mie necessità di lavoro, veramente senza numero, e in parte per quelle dei padri dehoniani che mi hanno ospitato, come contributo alla catena di amore con cui questi missionari aiutano tanta poverissima gente. L’ultima nazione in cui Pier Giorgio s’è recato, raccogliendo un appello dell’arcivescovo di Owerri, è la Nigeria, dove nel 2004 ha soggiornato tre volte per un periodo complessivo di oltre quattro mesi. Si trattava di realizzare nel villaggio di Emekuku un centro oculistico, il primo in assoluto in uno stato dove esistono pochissimi oculisti specializzati, e inoltre di formare dei medici locali. Quest’anno – prosegue – conto di tornare in Nigeria altre tre volte. Inoltre è prevista una puntata anche in Burkina Faso, dove in un centro pediatrico che assiste 900 bambini sto cercando di allestire un reparto oculistico attrezzato per svolgere l’attività sia clinica che chirurgica, con l’aiuto della Onlus Ciao Africa di Napoli. Ma soprattutto spero di ritornare in Mozambico, dove è rimasto il mio cuore. Sembra che mi si sia aperta una strada per ristrutturare l’ospedale di Marrese, sito nella regione di Nampula, al confine con lo Zambia e col Malawi. Sempre in Mozambico, dove spero di chiudere la mia vita di laico missionario, vorrei aiutare un frate cappuccino mio amico a portare avanti un orfanotrofio. Pensa che sono circa 800 mila i bimbi i cui genitori sono stati uccisi dall’Aids. Come tirarsi indietro di fronte a tale emergenza? . Ogni tanto Marina interviene nel racconto di Pier Giorgio per puntualizzare un fatto. Mi chiedo quanta forza d’animo debba avere una donna come lei che deve rinunciare al marito per diversi mesi all’anno. Ogni decisione riguardante i miei viaggi avviene sempre in pienissimo accordo fra noi – sorride il medico -. Anzi, in momenti di forte perplessità, è Marina che mi sprona, a conferma che la missione si fa in due: chi va a lavorare direttamente sul posto, e chi invece resta e sostiene l’altro spiritualmente a distanza. L’Africa è un tale intreccio di problematiche, di necessità senza fondo, di disuguaglianze assurde e scandalose, che ogni aiuto (scuole, centri sociali, chiese, presidi sanitari, pozzi…) può risultare una goccia nell’oceano. L’impatto con questa realtà potrebbe scoraggiare o al contrario – ed è il caso di Pier Giorgio – incentivare il de- siderio di donarsi, sapendo che anche poco può essere di capitale importanza per i più svantaggiati e indifesi. Le patologie oculistiche con cui ho a che fare sono quanto mai varie e riguardano un po’ tutte le fasce d’età. Ma la più colpita dalle forme tumorali è quella infantile: da uno a sei anni. Per esse, purtroppo, è attuabile solo una chirurgia demolitrice. Quanti bambini ho visto morire, proprio a causa di questi mali, immagini che non dimenticherò mai!, si rammarica con la voce incrinata dalla commozione. Gli africani purtroppo non sono abituati a recarsi dal medico e spesso, quando lo fanno, è troppo tardi. Ecco perché la cecità è così diffusa. E allora, di fronte alla mia impotenza, specie se si tratta di bimbi, alla rabbia del momento segue un’infinita tristezza. Ci sono, però, anche tante soddisfazioni: quando, per esempio, tantissimi ciechi per cataratta bilaterale, una volta operati, si accorgono di ritornare a vedere. Non dimenticherò mai quanto mi ha detto, ballando e cantando nella sua lingua materna, una donna claudicante il mattino dopo l’intervento: Dio è grande, ma le mani del dottore sono ancora più grandi. Un’ultima considerazione: Non c’è solo male nel mondo, sono tanti – credenti e no – quelli che operano il bene. In tutti questi anni ho incontrato persone meravigliose che, nel silenzio, si prodigano per chi più soffre, e in questo trovano la loro felicità. È una gioia – ed io l’ho provata tante volte – che definirei inebriante . Caro Mozambico… Mi mancano i sorrisi dei tuoi bimbi, il loro modo di guardarmi incuriositi. Quei bambini meravigliosi – la vera ricchezza dell’Africa! – malgrado siano vestiti di stracci o nudi, alcuni con addomi prominenti ed ernie ombelicali, da cui vengo letteralmente preso d’assalto all’arrivo in un villaggio… Ho nostalgia di quelle sere in cui, disteso a riposare sulla spiaggia, ammiravo con occhi che si riempivano di immenso il cielo stellato o i riflessi prima rossi e poi argentei della luna sull’oceano. Ma sopra ogni cosa mi manchi tu, Africa, con i tuoi spazi sconfinati, i tuoi colori e le tue infinite possibilità di attrarmi o di respingermi. Come quando, girando fra le capanne delle periferie di Quelimane, mi lasci sconvolto da tanta povertà, facendomi sentire complice silenzioso di un assurdo ed ingiusto sistema economico mondiale. Eppure non finisce mai di sorprendermi la dignità della tua gente, che il più delle volte si sostenta solo con un pasto al giorno. Sensazioni che si ripetono quando vado in ospedale, a contatto con gente semplice abituata a soffrire. Lì ci sei tu, Africa che tremi, piangi, hai paura, chiedi aiuto a me uomo d’una cultura così diversa, cerchi nel mio sguardo di medico la speranza di guarire. Mi hai insegnato come è bello vivere così, con un cuore senza confini, e questa è una motivazione forte per ritornare. Però so anche che per accoglierti, per farti spazio dentro di me, devo mettere in discussione tutto il mio modo di essere. Voglio riuscirci, malgrado la mia incoerenza e tanti limiti. Certo, devo mettere in conto imprevisti, insuccessi, incomprensioni, solitudini… È allora che mi chiedi di essere tollerante, paziente nei riguardi della storia e della cultura di un popolo per il quale è naturale ricorrere, prima che al medico, ai riti tradizionali ed alla stregoneria. La gente, qui in Occidente, non immagina che cosa sia in realtà un ospedale africano, dove è normale che molti ammalati dormano per terra nelle corsie o nei viali che dividono i vari padiglioni. E magari tanti in fase terminale, con gravi forme di denutrizione legate ad epatiti avanzate, alla tubercolosi o all’Aids. Questo è l’incontro con l’Africa vera, quando la forte voglia di scappare si alterna al desiderio di rimanere. Ma lontano da te, Mozambico, ritornano alla mente anche le tante gioie dovute alle guarigioni, allo stare insieme perdendo un po’ la percezione del tempo, al sorriso e alla gratitudine per l’aver donato. Come potrei dimenticarti? E come, nella confusione della mia città, non domandarmi dove corra o cosa cerchi tutta questa gente? Aspettami, Mozambico, viviamo per un po’ ancora insieme. Pier Giorgio Turco

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