Con gli ultimi a Torino

In carcere e sulla strada una religiosa domenicana raccoglie la domanda di fraternità, in unità con la sua comunità e nella fedeltà al proprio carisma.
Donne e bambini in carcere
Sono Maria Silvia delle Suore Domenicane di Betania. La nostra congregazione è nata in un carcere francese nel 1864. M. Jean Joseph Lataste (1832-1869), un frate domenicano francese, viene mandato a predicare un ritiro nel carcere femminile della sua città, Cadillac, a quattrocento donne condannate per anni al lavoro forzato e al silenzio perpetuo.

 

La fondazione

 

Le prime parole che Lataste rivolge loro sono: “Carissime sorelle”. Attraverso le sue parole le donne incontrano un Dio che non giudica, che non guarda al passato, un Dio che perdona e fa misericordia subito. Riconciliate con loro stesse, con il loro passato, queste donne confessano il desiderio, una volta scontata la pena, di dare la loro vita interamente a Cristo.

Così Lataste davanti al Santissimo ha l’intuizione di una comunità dove donne dal passato travagliato, come quelle che ha di fronte, e donne da un passato “regolare” possano vivere insieme senza nessuna distinzione tra chi è caduta e chi è rimasta in piedi.

 

Siamo una comunità domenicana, perché Lataste ha voluto per noi una spiritualità come quella di san Domenico aperta al soffio della grazia. È la grazia il motore del cambiamento ed è la discrezione sul nostro passato lo spazio in cui Dio può fare meraviglie. L’adorazione quotidiana del Santissimo diventa luogo di intercessione in comunione con chi fa fatica, di guarigione delle ferite e di rendimento di grazie per le meraviglie che ancora oggi Dio opera nelle sue creature.

 

Il carisma dell’unità

 

Il nostro incontro con la spiritualità dell’unità è avvenuto a Roma negli anni ’80, quando il sacerdote che diceva la messa alle nostre suore chiese loro di donarsi quotidianamente le esperienze sulla vita del Vangelo. Una richiesta forte, ma che fu accolta e che lentamente le portò a vivere la spiritualità dell’unità. La loro vita acquistò freschezza e gioia e chi aveva la responsabilità ne colse il valore e la serietà.

 

Prima non c’erano vocazioni, poi… una, due, dieci giovani sono entrate in comunità ed hanno avuto la possibilità, mentre si formavano al nostro carisma, di approfondire e vivere anche la vita d’unità. Io sono una di quelle giovani.

Da allora il carisma dell’unità, con la parola di vita vissuta, l’amore che genera Gesù in mezzo, il farsi uno, la fedeltà a Gesù Abbandonato sono state e sono la nostra vita in consonanza perfetta con la spiritualità domenicana.

 

Nel carcere delle Vallette

 

La nostra comunità di Torino, composta da tre suore, è nata su questa vita. Abitiamo in un ex- monastero cistercense nella zona del Castello di Mirafiori. La nostra vita fraterna, di lavoro, di preghiera con l’adorazione del Santissimo e di studio sono il motore del nostro apostolato.

Una volta alla settimana andiamo in due al carcere femminile delle Vallette. Come a Cadillac, cerchiamo di testimoniare la speranza. Incontriamo le donne che vogliono parlarci. Sono straniere, lontane dalla famiglia, sole, vi sono anche italiane con situazioni difficili alle spalle.

 

Soprattutto sono donne che hanno commesso una sola volta nelle loro vita una sciocchezza; che si trovano senza soldi, senza lavoro e con figli da mantenere. Allora quella valigia da portare in Italia, quel pacco da consegnare a Porta Nuova è visto come la speranza di un futuro diverso, meno misero. E invece si trovano a scontare quattro anni o più in una cella, cercando cosa raccontare ai figli che non li faccia vergognare…

 

Offriamo loro, compatibilmente con il nostro stile di vita, la possibilità di venire da noi per il tempo dei permessi cui hanno diritto. Vivono con noi, mangiano con noi, pregano con noi se vogliono. Sono tenute a rispettare gli obblighi che il magistrato prescrive, come presentarsi ogni giorno alla polizia, accompagnate da una di noi.

Al carcere nei colloqui settimanali ascoltiamo le loro angosce, le loro ansie, spesso le loro lacrime, ma anche le loro gioie: una lettera della famiglia, uno sconto di pena, il lavoro semestrale ottenuto. Anche se non parliamo di Dio, lui passa e arriva dove vuole arrivare.

 

Quando si incarcera una persona si mette in carcere un’intera famiglia. Davanti al carcere il giorno dei colloqui vi è una via crucis di mogli, madri, figli, fratelli e padri, colpevoli forse solo di non avere i numeri giusti per stare a galla nella vita. Anche qui spesso troviamo il parente, che ci chiede se possiamo andare a trovare qualcuno al reparto maschile, se possiamo vedere quella loro figlia e portare loro un saluto.

 

In carcere ci sono anche i bimbi da 0 a 3 anni. Sono stati incarcerati con le madri e allo scadere dei tre anni devono essere staccati dalla mamma e consegnati alla famiglia o ai servizi sociali. Sono bimbi che crescono in un ambiente di volgarità, di urla, certo ci sono anche agenti gentili o il Telefono azzurro…

Una delle donne che vediamo in questo momentoha una bimba di 4 anni che deve essere operata di tonsille. Ha chiesto il permesso al giudice per stare almeno quel giorno con la bimba… il permesso è arrivato, ma dovrà andare in ospedale con la scorta regolarmente in divisa e dovrà far ritorno al carcere al momento del risveglio della bimba!… proprio quando ne ha bisogno.

 

Con il Gruppo Abele

 

È fondamentale la sinergia con le altre strutture presenti in città. Da quando siamo a Torino lavoriamo a metà tempo col Gruppo Abele. Prima con i ragazzi e le ragazze sieropositivi e in aids, ora nella casa di fuga del progetto “Tratta e Prostituzione” con le donne nigeriane che hanno avuto il coraggio di denunciare chi le ha sfruttate.

 

Casa Gabriela: questo è il nome della comunità che accoglie queste donne, partite con un sogno o un desiderio, ma imbrogliate. Diventate adulte troppo in fretta. Sono tutte nigeriane, la più vecchia ha trent’anni. Il corpo e il cuore di queste donne portano i segni della violenza subita. A una di loro, ancora giovane, solo 18 anni, la sua sfruttatrice con il compagno italiano le hanno fatto lo scalpo in segno di disprezzo e di potere su di lei. Dopo è stata abbandonata con i vermi nel cervello davanti a un ospedale di Torino. La mia presenza lì è nella quotidianità, con loro e con l’équipe di educatrici nella ricerca del loro vero bene.

 

Cosa condividiamo col gruppo Abele? L’esperienza che l’Amore sperimentato e condiviso fa rinascere le persone e di questi miracoli ne vediamo tanti.

Il lunedì sera andiamo a Porta Nuova. Sentivamo l’esigenza di dare nuovi spazi al nostro carisma nella realtà di oggi, qui a Torino, e abbiamo raccolto la scommessa da un amico incontrato una sera, proprio lì: “Venite con me, vado con altri ad incontrare i tossici e la gente che vive a Porta Nuova la notte”. Sentivamo che dovevamo offrire amicizia, incontro, relazione e non pretendere il cambiamento. Loro avrebbero cambiato vita se e quando avrebbero voluto.

 

All’inizio pensavamo ai tossici, poi abbiamo incontrato i senza fissa dimora, le donne, gli stranieri, alcuni uomini italiani in cerca di relazioni sessuali con giovani stranieri, anche minori. Insomma il popolo della notte. Oggi il nostro gruppo è formato oltre che da noi, da alcuni novizi dei Domenicani, e da un’amica. Ascoltiamo le storie di quelli che incontriamo, la loro disperazione, ma anche il loro bisogno di relazioni umane con persone, che non siano del giro o della strada, con le quali poter parlare senza quell’intreccio di falsità, di falsa immagine o di rapporti di forza che la strada insegna ad assumere, se si vuol sopravvivere e non morire.

 

Hai fame?” chiedevo tempo fa a un giovane marocchino che mi si era avvicinato; mi risponde: “Ho fame di relazione, di parlare, e non di pane, anche questa è fame sai?”. Chi di noi può dirsi esente da questa fame? Siamo fratelli e sorelle in umanità. Incontriamo la gente che vive la notte intorno a Porta Nuova, nel loro ambiente naturale: la strada. Portiamo del cibo… ma non è l’essenziale, è solo un mezzo per facilitare la relazione.

 

Nostro maestro è stato un ragazzo che da ragazzo di strada ora è diventato educatore di strada; ci ha insegnato, per esempio, a non intervenire in una lite tra due che se le danno per questione di eroina o di donne, a non interferire con chi si sta preparando la siringa per farsi, perché quello non ti ascolta. Ora ci conoscono e ci aspettano. Anche a Porta Nuova siamo testimoni dei miracoli che l’Amore condiviso suscita. Ci sarebbero molti fatti da raccontare.

 

Michele e Franco

 

Michele. Una sera mi sento chiamare con un po’ di rabbia, vedo un ragazzo avvolto in una coperta, disteso sul pavimento, era evidente che era in crisi di astinenza. Mi dice: “Dì, suora Gesù Cristo era alto biondo e con gli occhi azzurri?”.Rispondo: “Non lo so, non credo, non l’ho mai visto di persona”. Continua: “Però lui era seguito e amato da tanta gente”. “Ha avuto anche lui qualche problema con questa gente”, dico io. Riprende: “Dimmi perché io, che come fisico gli assomiglio, sono schivato dalla gente che quasi mi disprezza”.

 

Cosa faccio? Salvo la categoria uscendo con un bel discorso pio o cerco di capire questa rabbia da dove viene? Gli rispondo: “Con chi ce l’hai stasera tu?” Le lacrime rigano il suo volto e mi risponde:”Potresti farmi un po’ di compagnia adesso?”. Guardo il resto del gruppo, perché sappiano dove ritrovarmi o cercarmi nel caso di bisogno. Mi siedo sul carrello della stazione e come un fiume in piena mi racconta la sua storia. L’ho lasciato che dormiva. Anni dopo camminavo in una strada di Torino e mi sento chiamare, è lui, uscito dalla droga, che mi dice: “Mi ricordo ancora la tua frase su Gesù Cristo, vedi che ci sono ancora?”. Un altro si affaccia da un’auto, in camicia bianca: “Vedi che ce l’ho fatta sono in comunità, questa è la mia mamma”.

 

Franco. Una sera tardi tornavo sola da Porta Nuova. A un tratto vedo del movimento e penso a un incidente. Mi fermo, non si sa mai. Due ragazzi: uno con il cellulare chiamava il 118, l’altro faceva domande a un mucchietto di stracci: “Sei Vivo? Hai male? Sei morto?”. Mi avvicino, lo riconosco e dico: “Franco, cosa fai lì per terra?”. Franco alza la testa: “Suora tre Pater, Ave, Gloria per me!”. I due si stupiscono: “Ma suora!”. Sorrido: “Lo conosco”. Franco mi vuol parlare e mi dice: “Io ne ho combinate nella vita, ma non sono un giuda, non ho mai tradito, non sono come il Giuda di Gesù. Prega per me”.

 

Lo invito a lasciarsi accompagnare senza storie al vicino ospedale, fa freddo, li starà al caldo. Arriva l’ambulanza. Scende un medico, piccolo di statura: “O no, ancora tu?”. Lo convinco a caricarlo, ma inciampa nelle rotaie. Franco, alto 1,80, lo raggiunge, lo afferra per un braccio, alzandolo dal suolo e borbotta: “Allora si va o no all’ospedale”.

Ho rivisto Franco mesi dopo tutto ingessato… era stato picchiato da sei poliziotti; gli chiedo se ha fatto denuncia: “No perché la loro divisa gli da molti diritti”. È sparito e non l’ho più incontrato.

 

Mentre la sera io sono a Porta Nuova, la mia comunità mi accompagna facendo l’adorazione del Santissimo, perché sia Lui a passare attraverso le mie parole, la mia amicizia e perché sia il Suo volto quello che veda negli uomini e donne che incontro la sera.

Sentiamo che vivere con loro da fratelli e sorelle, come Lataste ci chiede, e non per loro, è il nostro specifico contributo verso quell’unità che Gesù ha chiesto al Padre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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