Comunicazione e spiritualità

Era il 2 aprile alle sei del mattino. Mi ero avventurato in Piazza San Pietro, per esserci, per sollevare lo sguardo verso la finestra illuminata del papa agonizzante. Salvo uno sparuto manipolo di papaboys che si ostinavano a pregare attorno ad una candela. Nella piazza e nelle sue adiacenze stazionavano solo giornalisti, fotografi, cameraman, tecnici radio. Un popolo riconoscibile a distanza, smaliziato e rotto ad ogni emozione e pericolo. Dopo qualche decina di minuti di deambulazione, mi sono rifugiato in un bar sul lungotevere: occhiaie profonde e un’insolita moderazione nei toni. Un giornalista turco si diceva colpito dal rispetto dei colleghi per quel vecchio morente, mentre un fotografo austriaco affermava: Ho immortalato morti ammazzati e santi canonizzati, dannati e gente semplice. Chi scende in piazza ha lo sguardo sincero, poche volte ne ho visti di simili. Qui c’è il mondo al contrario, e noi possiamo mostrarlo. Finalmente. Circa 5 mila sono stati gli operatori dei media accreditati presso la sala stampa vaticana per le tre settimane di Wojtyla e Ratzinger. Uno ogni mille pellegrini. Nel piazzale al fondo di via della Conciliazione è stata edificata una cittadella dell’informazione sormontata dalle steli al dio catodo, e le migliori posizioni sono state contese come raramente si era visto (1). Anche lì, parolacce quasi assenti e atmosfera serena, nonostante il dover esserci nell’istante decisivo. 5 mila e 5 milioni: sembra quasi che la virtualità televisiva – così iconograficamente pulita e che certamente permetteva di seguir meglio gli avvenimenti in poltrona piuttosto che nella massa tumultuosa, rumorosa e odorosa nel quartiere Borgo – non bastasse più a tanta gente, ansiosa di vivere dal vivo la fine del vecchio pontefice e l’inizio di quello nuovo. Quasi che un rigetto della virtualità fosse stato risvegliato dal più mediatico dei leader religiosi; un leader che rifiutava ogni illusione mediatica, però. Margherita Hack, in un’intervista televisiva, con la solita schiettezza ha sostenuto che le processioni di omaggio alla salma del papa polacco non erano altro che un fenomeno mediatico. Opinione rispettabile; ma chiunque abbia conversato anche solo per qualche minuto con giovani e anziani in fila attorno a San Pietro, sa che ciò non corrisponde al vero. Viene piuttosto da condividere quanto ha detto René Girard: Il papa ha reso popolare e diffuso dappertutto una nuova immagine della Chiesa cattolica che non è mai stata quella di una debolezza morale e religiosa (2). Non è nemmeno l’immagine di un papa mediatico che ha attirato questa gente: Giovanni Paolo II non aveva dimestichezza coi media – dice Adriano Sofri – però, era molto sicuro di sé (3). Insomma, un papa che ha vissuto la sua missione. Franco Cradini, in una notte trascorsa a fare la fila in via della Conciliazione, si è posto le domande che tutti dovevano porsi sull’autenticità dei sentimenti di coloro che, accanto a lui, sfilavano in un pellegrinaggio inatteso. Ha capito che quei ragazzi rendevano omaggio all’uomo che ha dato a molti un orizzonte verso cui guardare (4). È vero, può darsi che un certo numero di persone abbia ceduto al prurito mediatico di un reality show in diretta, per giunta sicuramente reale; ma penso che poca gente abbia l’ardire di mettere sullo stesso piano un Grande fratello e questo Pope’s End, come l’ha titolato Newsweek (5). Ben venga, anzi, una tale riabilitazione del reality show! E che dire delle lacrime della gente? Quanta differenza dalle false commozioni sentimentalistiche spudoratamente spiattellate sul teleschermo, quanto pudore vero nella mancanza di falso pudore delle ultime settimane di malattia espressa dal papa! Finalmente un reality reale. Ma ben più numerosi, è ovvio, sono stati coloro che hanno seguito gli avvenimenti alla tivù o alla radio, in una no-stop che ha sorpreso non po- chi, in un insolito sconvolgimento dei palinsesti e nella scomparsa – almeno per un paio di giorni – della pubblicità dalle reti televisive, persino (udite udite) da quelle private. In tutto ciò – va detto – ha avuto un grande ruolo la trasparenza della comunicazione vaticana, che nulla ha nascosto e nulla ha modificato nello svolgimento degli eventi. Paiono assai lontani i tempi dei misteri vaticani, delle notizie distribuite ai giornalisti col contagocce. Così, per tre settimane, sugli schermi delle tivù, sulle onde delle radio e sulle pagine dei giornali abbiamo potuto vedere trattati diffusamente temi solitamente tabù: la morte, il dolore, la santità, la misericordia, l’attesa, il sacrificio… Di solito si dice che l’audience ama nutrirsi di quattro esse: sesso, soldi, sangue, salute. Ebbene, possiamo forse dire che stavolta s’è stabilmente aggiunta una quinta esse da tempo in lista d’attesa: spiritualità, che forse rimarrà d’ora in poi nel novero degli strumenti per incrementare l’ascolto. Complici anche le contemporanee vicende di Terri Schiavo e del Principe Ranieri, i media sembravano attraversati da un’improvvisa vena filosofica, se non addirittura mistica… E anche le trasmissioni e gli articoli che trattavano altri argomenti parevano registrare un abbassamento di toni, un ascolto più attento e tollerante, un’insolita sordina posta sull’effimero. Tempo e spazio mediatici hanno anch’essi subito delle modifiche. Se il segmento d’attenzione televisivo negli ultimi anni s’è via via contratto fino a scendere dai notori tre minuti ai 40 secondi, questa volta si è risaliti non solo ai tre minuti, ma ben oltre, in dirette infinite da Piazza San Pietro. E lo spazio s’è invece contratto nel breve perimetro della medesima piazza, divenuta il centro del mondovillaggio, salvo in Cina e, almeno in parte, in Russia. E la testimonianza dei grandi del mondo – prima inginocchiati ai piedi del papa della pace morto e poi a quelli del papa della verità vivo – hanno mostrato che la convivenza è questione di volontà dei terrestri, oltre che dono del Cielo. A proposito, grande protagonista di queste tre settimane di passione mediatica – anche per il contributo egregio, intelligente e silenzioso dei registi – è stata la folla, la gente, il popolo di Dio del Vaticano II, più ancora che la macchia rossa e svolazzante dei cardinali o quella nera e compita delle autorità. Un popolo rivalutato anche nella sua capacità di sentire la vera fede – i teologi parlano di sensus fidei del popolo di Dio -, spesso con reazioni forse primarie ma autentiche, come è accaduto per la richiesta dell’immediata santificazione di Giovanni Paolo II. Sbavature e sbagli? Ce ne sono stati tanti, ovviamente, a cominciare dal rischio talvolta sottovalutato di overdose, o nelle lungaggini che sono apparse qua e là quando le decine di ore di commoventi filmati sul vecchio papa erano finite. O, ancora, negli anchorman (pochissimi) malati di protagonismo e di boria fuori posto, o negli ospiti così simili al prezzemolo, che saltavano da una rete all’altra… O, per finire, negli infiniti e sterili totopapa che hanno riempito i talk show nell’interregno tra i due pontefici, ancorati alla stantia distinzione, tutta politica e così poco religiosa, tra conservatori e progressisti. Dettagli, tuttavia, in un consuntivo sostanzialmente più che positivo. S’è mostrata, più di altre occasioni, l’enorme potenzialità positiva dei media come moltiplicatori del bene, come microfoni posti all’ascolto del vero sentire della gente, come costruttori positivi della vita sociale.

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