Come arrivare legalmente in Italia

“Vogliamo che giungano con le navi o con gli aerei e non con le carrette. E che siano attesi”. Questa frase di don Pietro Sigurani, parroco della Natività nel quartiere Appio latino a Roma, sintetizza l’impegno di una comunità a favore degli immigrati. Di quelli presenti a Roma, e di quelli che dalla Tunisia vorrebbero arrivarvi. Perché appunto, l’altra faccia dell’accoglienza è la prevenzione, che vuol dire creare sul posto condizioni più umane. Lanfranco Scribani, Anna Nardi, Tonino Bucci e Vittorio Battarra, insieme al loro parroco mi raccontano l’avventura iniziata qualche anno fa, quando da rapporti intavolati con immigrati che frequentavano la Domus caritatis, un centro di accoglienza della parrocchia, è nata l’esigenza di “andar giù per capirne di più”, mi dicono. E così si capisce che una via percorribile è quella di formare dei giovani e prepararli a venire in Italia. In seguito ad accordi col governo tunisino, col sostegno del comune di Roma e della regione Lazio, nascono dunque due scuole, a Douz e Kibili. Anna, che insieme al marito Lanfranco ne è la preside racconta: “Il corso, che dura 6 mesi, consiste principalmente nell’insegnamento della lingua italiana, e le materie sono incentrate su legislazione italiana del lavoro, norme sanitarie, cultura italiana, ordinamento legislativo. Cerchiamo soprattutto di prepararli ad un impatto meno traumatizzante. Sono infatti ragazzi dai venti ai trent’anni cui sembra di andare nel paese di Bengodi, per cui si cerca anche di sfatare questo sogno, di dire che la vita costa, che bisogna stare attenti. Si offre una preparazione di fondo basata sul nostro rispetto verso di loro che formi un loro rispetto verso di noi. Alla fine c’è l’esame col rappresentante dell’ambasciata d’Italia che presiede la commissione. E c’è anche chi non lo supera”. Il primo anno comunque ce l’hanno fatta in 106. Per i quali a quel punto si trattava di trovare lavoro. Don Pietro e i suoi amici girano per questo l’Italia: “Siamo andati a cercare lavoro a Bolzano, Modena, Reggio Emilia, Ladispoli, Roma, un po’ dappertutto – mi raccontano -. C’è voluto un grande impegno anche perché l’impatto con il mondo del lavoro è avvenuto proprio nel periodo dell’11 settembre scorso quando presentare un arabo era particolare… Ad esempio in una ditta di Bolzano abbiamo faticato parecchio perché ne prendessero alcuni, ma dopo ce ne hanno chiesto altri. Le ditte infatti dopo una prima diffidenza sono contente perché sono ragazzi del Sahara, abituati alla fatica, al caldo, al freddo, ai sacrifici, perché garantiscono turni di lavoro diversi in quanto le loro feste non coincidono con le nostre”. Il rapporto con la comunità tunisina? “Inizialmente pensavano che eravamo ingenui oppure erano sospettosi. Poi ci hanno chiesto perché facevamo questo per loro. Hanno visto che non lo facevamo per soldi né perché diventassero cristiani o per altri interessi. Cerchiamo la provvidenza e ci basiamo su tanto volontariato”. La ricompensa più grande è vedere che c’è chi riesce a costruirsi la casa, a comprarsi un cammello, a metter su un’attività. Insomma a cominciare una vita più umana. E adesso? “Attualmente siamo bloccati perché essendo cambiata la legge sull’immigrazione rischiamo di costringere questi giovani a doversi rivolgere ai traghettatori clandestini. Che sono ben pronti ad approfittarne. Ma quelle carrette vanno fermate”.

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