Combattere per la pace… un controsenso?

Alcuni giovani israeliani e palestinesi hanno deciso di percorrere insieme la strada della non violenza. Hanno storie molto diverse, ma ciascuno ha sperimentato il dolore di vivere in una terra lacerata dalla divisione e dall'odio
Erez Krispin e Mohammad Owedah

Combattere per la pace: può essere un controsenso? A volte sì ma non per i membri di “Combatants for peace”, un movimento nato dall’iniziativa di alcuni israeliani e palestinesi, una volta attivi nell’esercito israeliano o nell’opposizione armata palestinese, che hanno deciso di intraprendere insieme la strada della non violenza. «Non violenza non significa essere passivi – afferma Erez Krispin (nella foto insieme Mohammad Owedah), responsabile delle relazioni internazionali del movimento –. Quando ci si trova di fronte alla violenza, la si contrasta, non si fugge via».  

Una rappresentanza del movimento è in visita in questi giorni negli Stati Uniti e la scorsa settimana ha tenuto un incontro presso l’Hartford Seminary, un’istituzione che, fra le varie attività, si occupa di favorire uno spazio di incontro e dialogo fra le religioni.

Adi, Khadir, Erez e Mohammad  formano un piccolo gruppo di persone abbastanza eterogeneo. Due israeliani e due palestinesi, tre uomini e una donna, alcuni parlano un perfetto inglese mentre Khadir, ad esempio, non lo conosce. Piccoli segni, ma che fanno capire la differenza di ambiente dalla quale queste persone provengono. Ciò nonostante, qualcosa di profondo le unisce: il desiderio di pace e la scelta di aver gettato le armi per raggiungerla.

La prima esperienza diretta di Khadir con le forze dell’ordine israeliane avviene alla sola età di 13 anni, quando viene messo in prigione con l’accusa di lanciare pietre ai soldati. Durante i giorni di prigionia, alcuni detenuti più anziani introducono Khadir nel mondo dell’opposizione ad Israele. Anni dopo, Khadir verrà incarcerato ingiustamente e privato della possibilità di continuare i suoi studi in Giordania. Una volta rilasciato, si unirà ad Al-Fatah. Dopo anni di lotta, Khadir ammette: «Mi sono reso conto che la sola soluzione per il conflitto non può essere militare, ma politica».

Adi è una giovane ragazza, nata un anno prima dello scoppio della Prima Intifada. Due delle sue amiche nel 2001 rimangono colpite in attacchi suicidi. Nonostante Adi sia cresciuta all’interno di una famiglia molto aperta di sinistra, con il passare del tempo si è resa conto di non sapere praticamente niente dei palestinesi che vivevano al di là delle barriere. «Mi consideravo molto ben informata – ammette Adi –, ma non sapevo esattamente perché ci fosse questo conflitto. In famiglia avevo capito che ‘loro’ ci odiavano e che ‘noi’ cercavamo di non rispondere con l’odio». Nel 2008 Adi si trasferisce a Gerusalemme e lavora in un ristorante con colleghi palestinesi. Lì Adi comincia a toccare con mano la realtà del conflitto e decide di unirsi a Combatants for Peace. «Se volevo diventare attiva dovevo vivere in un ambiente che non mi permettesse di dimenticare che l’”altro” è una persona», conclude.

Oggi Combatants for Peace accoglie fra i suoi membri non solo ex-combattenti ma anche persone come Adi che desiderano impegnarsi attivamente nel porre fine alla violenza in atto.

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