Colpo di Stato, o no?

Il 28 giugno le istituzioni sembrano aver fatto rispettare le leggi del Paese, nel tentativo di ridare onore all'intera nazione.

Manuel Zelaya Rosales, presidente eletto il 27 di gennaio 2006, quasi immediatamente ha cominciato a deviare la sua condotta verso un forte autoritarismo. Il suo emulare altri leader dell’America Latina voleva essere un segnale di cambiamento di direzione verso il modello socialista di Venezuela, Bolivia, Ecuador e Nicaragua. La sua idea era quella di togliere spazio all’impresa privata e dare invece più potere alle classi popolari, costrette all’emarginazione e alla povertà – era questo il suo pensiero – da oltre duecento anni.

 

La popolarità di Zelaya è cresciuta con l’avvio delle “Assemblee del potere cittadino”, nelle quali riuniva le comunità chiedendo quali fossero le loro necessità e promettendo soluzioni rapide ai singoli problemi. Credendo a queste promesse, certi settori popolari hanno seguito Zelaya a lungo, senza avere coscienza, però, che dietro quell’innovativa forma di consultazione si nascondeva un modello di socialismo autoritario. Egli stesso lo ha affermato nel firmare l’accordo di cooperazione conosciuto come “Alba” (Alternativa bolivariana delle Americhe). Questo modello, proposto dal Venezuela, è stato seguito anche da Bolivia, Repubblica Dominicana, Nicaragua e Honduras. L’intento era quello di porsi contro il Trattato di libero commercio tra America Centrale e i Paesi del nord – Canada, Messico e Stati Uniti –: una lotta, cioè, «contro l’imperialismo».

 

Dubbi su Zelaya

 

Durante i tre anni e mezzo della presidenza di Zelaya, numerosi settori democratici del Paese hanno sollevato molti dubbi sulla squadra dichiaratamente di sinistra che lo attorniava, soprattutto sulla sua mente pensante, Patricia Rodas.

È stata in effetti la Rodas a portare in Honduras l’idea che poi Zelaya ha fatto propria: far sì che la leader del Partito liberale ne diventasse la presidente, consentendole così di cambiarne gli statuti e trasformare il partito di centro sinistra in un partito totalmente di sinistra.

Il piano era apparentemente appoggiato da tutti, o almeno non osteggiato: tanto più che nessuno prendeva la guida dell’opposizione.

Neanche la Chiesa, le imprese, i mezzi di comunicazione e la società civile hanno reagito alla crescita di Zelaya; potevano così continuare gli attacchi ai gruppi di potere, ai mezzi di comunicazione e agli oppositori. Anche le forze armate erano in fondo al servizio di Zelaya.

Gli attacchi reiterati agli Stati Uniti, le continue riunioni con gli altri leader dell’Alba, così come le Assemblee del potere cittadino ogni fine settimana, non hanno fatto che confermare quanto annunciato da Zelaya: che alle elezioni generali di novembre avrebbe introdotto una quarta urna per domandare agli elettori se volevano riformare la Costituzione.

Questa richiesta ha suscitato le reazioni di diversi settori, che hanno fatto presente come non sarebbe stato opportuno aggiungere un’urna: con le tre già esistenti si sarebbero scelti presidente, deputati e sindaci. Anche i leader, sia della maggioranza che dell’opposizione, si sono espressi contro una quarta urna. Il presidente ha allora proposto un referendum per il 28 giugno.

 

Populismo contro illegalità

 

Questa consultazione sarebbe risultata illegale poiché, avendo un carattere elettivo, avrebbe potuto essere autorizzata solo dalla Corte suprema elettorale; Zelaya ha però aggirato l’ostacolo presentandola come una semplice “inchiesta popolare”, attraverso l’Istituto nazionale di statistica.

Tale però non lo era: il suo scopo, infatti, era quello di riformare la Costituzione, allungando il mandato presidenziale. È così partito il primo ricorso davanti al tribunale amministrativo di Tegucigalpa, che ha proibito la consultazione. Anche la Corte suprema di giustizia ha ratificato questa decisione, così come la procuratrice generale della Repubblica e la Corte suprema elettorale.

Ma Zelaya ha proseguito con l’appoggio delle forze armate. Almeno così credeva. Finché, una settimana prima del 28 giugno, la Giunta dei comandanti ha ritirato il suo appoggio al progetto del presidente perché contro la Costituzione.

La crisi si è acuita e il presidente ha minacciato di far svolgere comunque la consultazione, fino ad arrivare al 27 giugno, quando anche la comunità internazionale ha criticato tale atteggiamento autoritario.

Zelaya è stato arrestato a casa sua alle cinque del mattino del 28 giugno e portato all’aeroporto di Tegucigalpa, dove lo aspettava l’aereo presidenziale pronto al decollo per San José, in Costa Rica.

Nel frattempo il Parlamento nominava un nuovo presidente della Repubblica, con la conseguente dichiarazione dell’Organizzazione degli Stati americani (Oea) e delle Nazioni unite che definiva quello che è successo in Honduras un colpo di Stato.

I leader mondiali si sono pronunciati allo stesso modo e la condanna è stata generale, cosicché il nuovo governo di Roberto Micheletti ha dovuto spiegare a tutti per quali ragioni le diverse parti politiche e sociali dell’Honduras avevano preso la decisione di difendere la democrazia e il bene comune.

 

E ora?

 

La situazione è in continuo mutamento. L’ordine istituzionale potrebbe essere riportato grazie alla mediazione del presidente del Costa Rica, Óscar Arias.

Ha dichiarato a Zenit il card. Maradiaga: «Tra i seguaci del regime precedente ci sono anche molti cattolici che agiscono con buona coscienza, perchè non hanno tutte le informazioni. La Chiesa non può schierarsi da nessuna parte. La Chiesa cerca la riconciliazione, la pace, e cerca soprattutto l’intesa attraverso il dialogo». Ha aggiunto: «I partiti politici possono essere legittimi, possono avere un diverso modo di pensare, però questo non giustifica affatto la violazione della legge». E ha concluso: «Credo che sia molto importante che si torni a Dio, che si esamini il nostro cuore per svuotarlo dall’odio e dalla violenza, e che come fratelli honduregni cerchiamo delle vie migliori per il futuro di questo Paese».

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